Quando insegnavo boxe francese, avevo tra i miei allievi un ragazzo poco più giovane di me. Finito l’allenamento serale, si andava spesso a mangiare insieme, nell’unico ristorante cinese esistente in quegli anni a Sestri Ponente.
Il cuoco era un bravissimo padre di famiglia che aveva rinunciato al kung fu per qualche lezione di “calci e pugni” che contraccambiava con offerte di cene quasi famigliari: perché in fondo ci si conosceva tutti a Sestri.
Lory, così lo chiamavamo, era un ragazzo orfano: molto determinato e costantemente messo alla prova dalla vita e dalla sfortuna. Nonostante si sforzasse di non credere ai sogni, questi si verificano puntualmente:
«Sogno solo sciagure… E i miei sogni del cazzo si realizzano sempre».
Lavorava al porto come “faticatore” (diceva lui) e aveva risparmiato una cospicua somma per una vacanza estiva di quindici giorni in Spagna: in un villaggio turistico a Benidorm.
Sul ring, Lory era un generoso: incassava persino troppi colpi e spesso veniva richiesto come sparring partner, non avendo alcuna velleità agonistica, se non una profonda ammirazione per i suoi compagni di palestra che vincevano titoli.
Quella vacanza in Spagna fu un’ulteriore testimonianza della sua cattiva sorte e di un’innata predisposizione alla tragedia.
Il primo giorno di mare, venne sfidato da un gruppo di tedeschi in una gara di tuffi.
Non era il coraggio a mancargli, ma il calcolo della paura: tentava di dominare un’indole ambigua che lo spingeva all’incoscienza e, quella volta, non ci riuscì.
Si tuffò da uno scoglio su un altro scoglio, rompendosi il naso e fratturandosi mandibola e massiccio facciale.
Dopo una settimana di ospedale, chiese di essere dimesso e si recò nel micro-bungalow che aveva affittato con tre amici.
Un pomeriggio decise di abbandonare la noia del finto borgo Paraiso, giusto per un breve giro su una motoretta Ciao anni Settanta. A un incrocio, vicino a Plaza del Doctor Fleming, un catalano, impaziente di sole e spiaggia, non rispettò la precedenza e lo investì con l’auto: uccidendolo.
Lasciò: la richiesta non accettata di un mutuo prima casa, un posto di lavoro in nero, un acquario con tre “scimmie di mare”, due biglietti dello Stadio Marassi in gradinata Nord e un abbonamento annuale al corso di savate.
Lory non ebbe una seconda occasione: nessuna Fase Due.
Spese tutti i soldi e i suoi pochi anni in quel sogno estivo.
Quando gli agonisti della palestra partecipavano a un torneo, lui stava negli spogliatoi e li rincuorava prima del match:
«Non dovete avere paura. Non state per vivere un incubo, combattete solo contro un tipo che non è il protagonista del vostro sogno».
Non credo che i vincenti siano stati i migliori sognatori… Anzi, temo che sognare la propria vita ci costringa a non poterla vivere davvero. Ma le sue parole, in quel frangente, erano utili: come le croste sulle ginocchia dei bambini.
Combattendo ho imparato ad accettare il tappeto e, sebbene non abbia mai sperato di riprendermi, ogni volta che fossi finito knock out, ho concluso tutti gli incontri in piedi.
Ora, a quasi cinquant’anni ho qualcosa da sognare che sembri vero: rialzarmi prima del dieci.
Ricordo Lory. Mi capita di pensare a lui malgrado la patina del tempo: io avevo ventidue anni, lui un paio in meno.
«Ah… Come si fa? Come si fa a stare sul ring con la guardia bassa?», rimproverava agli sconfitti.
«E come si fa a vincere, se sino a ieri non sapevate nemmeno perdere?», li consolava.
Ecco… L’unica alternativa probabile ai sogni è la realtà.
Siamo rimasti in uno stato di quiescenza per due mesi, e ora supponiamo di essere pronti ad assumerci i rischi del virus, del contagio.
Come piccoli totem ambulanti usciremo di casa: emblemi di resistenza coatta, disequilibrio armonico e superstizione in maschera.
Se poi la vita dovesse combaciare con i nostri sogni, allora sì, ci sarebbe da preoccuparsi seriamente.
Angelo Orazio Pregoni