Sei un poeta, poetry slammer o poeta performativo orale, con una formazione teatrale alle spalle: quanta oralità finisce nelle tue storie, quanta drammaturgia scritta – pur di darti all’istinto narratologico – resta fuori?
Be’, il teatro è vita, come si dice, e io per ora vivo. Comunque, non ho una vera formazione teatrale alle spalle anche se anni fa ho partecipato a Cavie, il laboratorio che facevano al Teatro Valle di Roma quando era occupato, ed è stato iper stimolante. Era un laboratorio per scrittori che leggevano spesso ad alta voce di fronte a un pubblico e per attori che spesso scrivevano di loro pugno i testi. Fu bellissimo.
Al di là di questo: sono totalmente in balia del linguaggio, nelle mie serate come la mia “Conferenza sulla conferenza” faccio andare avanti il linguaggio, provo a seguire una fil di scaletta e poi uno scheletro di canovaccio, ma nel durante può poi succedere di tutto, cerco di fare in modo di non professionalizzarmi, non voglio far la fine di quello “bravo”, mi piace incespicare e far entrare chi ascolta in una dimensione come di parola in bilico, far percepire il senso dell’errore imminente. E ci riesco, spesso, a far passare questo senso dell’errore, a volte non si capisce proprio quello che dico, e forse è giusto così.
Ammesso che esista – concretamente – una definizione utile di poesia universale, che valore dai alle poesie che scegli di interpretare?
Non ho ancora capito che valore do alle poesie. Nelle prime poesie normali pubblicate da Miraggi avevo dei messaggi abbastanza precisi, sempre costruiti con il gusto per il paradosso, sempre, ma venivano fuori alcune idee di buon anticapitalismo, che è una cosa in cui credo ancora molto, un certo anticapitalismo. Invece con l’ultima pubblicazione, il Diario Involontario, edito da Tic, ho in parte abbandonato l’idea dell’avere un messaggio (non sono mica un postino, come diceva quello) e mi piace far risaltare una sovversione che ha a che fare con i meccanismi del linguaggio che a quanto pare, poi, il linguaggio, è quella cosa che ci riporta una rappresentazione del mondo. La poesia per me è questione di parole inaspettatamente accostate che generano uno scarto logico fruttuoso e infruttuoso allo stesso tempo, per questo, per me, un buon discorso sul linguaggio ci permette di svelare il costante cortocircuito in corso, così da rendercene conto e darci modo di deriderci.
Quali sono gli autori classici da cui non vorresti mai separarti? Quali gli autori contemporanei viventi?
Sono tutti autori di cui vorrei liberarmi perché mi hanno influenzato tantissimo e mi fanno sempre sentire epigonale. Beckett sicuramente mi sconvolse, ai tempi, quando lo lessi, Thomas Bernhard è un classico? Direi di sì. Mentre tra i viventi metterei Antonio Rezza ma soprattutto Paolo Nori, partecipai tanti anni fa a una delle sue scuole di scrittura emiliana, e lo amo, lui lo sa, potrei parlare per ore di Nori e del perché mi piace tantissimo il suo modo di scrivere, in particolare mi piace questa idea che è un po’ una tecnica che spesso adotta, la tecnica del Parlare d’altro. Parlare di una cosa parlando anche d’altro. (da qui ho individuato tre gradazioni di “altro” che si dividono in “altro” “ben’altro” e “tutt’altro”, ecco, mi piace pensare che la grande letteratura e forse anche l’arte in generale, debba riuscire a parlare di una cosa, e di tante cose, parlando di tutt’altro)
Che rapporto hai con il cinema e i fumetti? E quali sono i tuoi autori preferiti di questi due medium narrativi?
Da bambino avevo una montagna di Topolino vecchi che leggevo e rileggevo. Pippo e Paperoga sono i miei prefe (ricordo poi uno scambio di battute che non saprei dove andare a ritrovare, dove a Pippo chiedono, tipo, adesso non ricordo bene ma ero un bimbo, gli chiedono: ti piace l’aringa con il gelato sopra? E lui risponde: sì, ma senza l’aringa sotto. Questo sabotaggio linguistico per me fu un’illuminazione, ci pensai per ore e ancora oggi mi fa impazzire, forse i miei gusti in scrittura nascono tutti da lì, chissà).
Poi, grazie a Gabriele, mio fratello maggiore a cui devo tantissime cose di fruizione culturale, anche musicale, ho letto Dylan Dog e tantissimi manga della Star Comics, impazzendo per Dr Slump e Arale, e Dragon Ball, ma anche Ranma, City Hunter, e tutto quel giro, Masakatsu Katsura anche tantissimo, ma anche leggevo Cattivik, ad esempio, mi piaceva tantissimo. Con il cinema invece ho avuto un rapporto meno intimo, guardavo i film con i miei, sempre piaciuti tantissimi film del mainstream ma il vero cinema l’ho scoperto tardi, a Bologna, alcuni dei miei conquilini studiavano dams cinema avevano tipo 20 film da vedere per esame e mi infilavo con loro a guardarli scoprivo così il cinema d’autore è stato un passo avanti enorme.
Mio film feticcio: Ghost Dog, di Jarmush.
Ogni performer della parola immagina un lettore ideale. O forse no. Per te esiste? Se sì, il tuo lettore ideale come è fatto?
Non lo so, io sono contento se vedo che la mia forma di comunicazione un pochino illogica arriva, in generale forse dovrei lavorare di più sull’emotività, sull’empatia, ma più che altro mi piace concentrarmi su piccoli dettagli che svelino l’assurdo di cui siamo circondati, tutto è assurdo, lo leggevo anche oggi da Pessoa, dal libro dell’inquietudine, altro mio feticcio, tutto è assurdo ma – aggiungo io – spesso non ci facciamo caso, ecco, il mio lettore o pubblico ideale dovrebbe avere questo gusto per il paradosso e la sovversione del senso.
Come impieghi il tempo quotidiano dedicato ai tuoi interventi di narrazione orale?
Scrivere e leggere più che si può, e poi la famosa tecnica dello scrivere a mente mentre si legge, in particolare mi capita di leggere alcuni libri abbastanza tosti, tipo La Logica del senso, di Delezue, che da anni leggo e rileggo capendo sempre relativamente, o per niente, e mentre non capisco sento che mi ha fatto forse intuire qualcosa che sarà poi probabilmente riportata in forma anomala nei miei quaderni e da lì poi dopo chissà cosa succede.
In generale convivo con alcuni temi ricorrenti sempre lì fissi nella testa e questi temi ricorrenti incontrano parole di altri argomenti che mi capita di leggere in giro e faccio in modo di farli convivere creando delle variazioni minime ai temi ricorrenti che rimangono sempre loro, sempre ricorrenti, ma ogni volta un pochino diversi o derivati da quel che nel frattempo è successo.
Quale monologo, o poesia, non scriveresti mai?
Non mi piacciono quei testi in cui traspare dalla voce dell’autore che quello che vuole è avere ragione.
Ti andrebbe di raccontarci quanto ti sei allenato, in tutti questi anni, prima di esordire sulla scena poetica e teatrale nazionale?
In generale sento di esordire costantemente, il mio allenamento consiste spesso nel dormire molto, avere il coraggio di dormire molto e concentrarsi sui propri pensieri e vedere come son fatti, magari guardare i pensieri come fossero paesaggi. Ho scoperto che Pessoa dormiva tantissimo, il libro dell’inquietudine è un’autobiografia senza fatti, il mio Diario Involontario è simile. Me ne sono accorto dopo.
Questo è un mondo dove sembra – ad oggi – aver vinto l’immagine, a discapito della parola scritta. Eppure c’è chi resiste. Ti andrebbe di dirci perché scrivi storie e reciti versi?
Non so, in fondo le parole scritte possono generare immagini, oppure, come dicevo poco sopra, mi piace l’idea di guardare le parole come fossero paesaggi. Chissà. E i meme cosa sono? Testo e immagine insieme, pazzesco!
Comunque sì, sembra essere necessario il farsi vedere, uno dei miei esperimenti recenti si chiama Esistere non basta, è una performance in cui sono davanti a un pubblico ma invece di parlare e dire cose, come succede di solito nei reading, me ne sto zitto e scrivo forsennatamente per ore mentre il pubblico vede proiettate le parole. In qualche modo tutto è nato da questo pensiero relativo all’esistere in questo nostro periodo in cui ogni giorno sembra di dover dimostrare che si esiste.
Non so perché scrivo, ho sempre scritto e letto, fino a qualche anno fa ero convinto che tutti scrivessero e leggessero, invece no, a me sembra una cosa abbastanza naturale e invece no, non tutti scrivono e leggono, e non capisco come mai.