La incontro in studio: arriva da molto lontano e ha trovato il mio nome da qualche parte. Si è seduta con la schiena dritta, ha appoggiato gli esami sulla scrivania e aspetta di parlare:
sorride il giusto, non troppo e nemmeno poco, come si conviene quando il pudore impedisce di mostrare il trauma, il dolore, la rabbia. Una donna perbene sa affrontare la vita, pare.
Con un gesto della mano e poche frasi la invito a tirare fuori il suo racconto, inspira prima di scavare: lo sguardo deve specchiarsi invece di restare su di me, ci vuole il refolo fresco che scende nei polmoni, la sospensione piccola di una bocca che si apre appena, le dita a stringersi l’una con l’altra davanti al ginocchio accavallato.
– Ho avuto un tumore, ecco. Qui vede i documenti.
Annuisco, non le rivelo che ho sbirciato subito la data di nascita: è Ariete e non conosco
l’ascendente, ma l’eleganza nell’entrata e la rigida imposizione di autodisciplina stanno
sussurrando tante cose.
– E’ andato tutto bene, e in fondo era il momento giusto, perfetto. Il lavoro sta andando
bene, avevo appena concluso un grosso progetto, il matrimonio è a posto, i miei figli…
Va avanti, mi spiega perché secondo lei il cancro è stato gentile: è arrivato quando sembrava logico, al compimento della serenità. Niente sembra stonare, se non fosse che stiamo parlando di una malattia che avrebbe potuto non arrivare, un disturbo di quelli pesanti, un’interruzione che farebbe incazzare un Buddha.
– Sono venuta qui per chiederle un parere sulle cure che sto ricevendo e…
– E?
Conosco questa esitazione, ho imparato ad accoglierla allargando un po’ il sorriso e
sporgendomi avanti, come se volessi abbracciare (e lo faccio, un po’, senza toccare).
– Insomma, magari mi prenderà per matta! Ma vorrei chiederle se ci sono altre cose in
più, se posso aiutarmi meglio a tenere lontana la malattia: Rispettando le prescrizioni
mediche, è evidente. Alludo a un rinforzo, a qualcosa che aggiunga protezione e possa
fare io.
Non è pazza, è più sana di tanti altri: ha capito che recuperarsi, riprendere l’armonia del corpo non dipende solo dalle terapie mediche e chirurgiche che, comunque, sono le migliori (nel frattempo ho sfogliato la pila ordinatissima di documenti che ho attirato a me trascinandola sulla scrivania). E’ che ha bisogno di sentirsi dire che non usciremo dal razionale, da una condizione rassicurante di “scienza che veglia” e non le permettere di deragliare.
– Non ho avuto traumi, le assicuro. Ho vissuto la diagnosi e la chirurgia con serenità: si
vede che l’ho presa bene.
Resto in silenzio, ancora. Non è il momento, evito di dirle che nessuno “la prende bene”:
esistono tempi e modi, ma le fasi del lutto (cioè lo shock) arrivano comunque. Sto aspettando il gancio cui aggrapparmi, il filo sottilissimo da tirare per iniziare insieme la Via della Cura: non devo forzare, mi basta rilassarmi e fare lavorare i sensi. L’empatia è un senso, per esempio: coglie, osserva, ascolta, intuisce. Prima o poi chi siede di fronte a me getterà un ponte di corda dal suo abisso al mio, e se sarò pronta ad afferrarlo ci troveremo insieme in mezzo, a dondolare su un vuoto che di cui avremo paura ma che potremo riempire con calma, con una ricerca che non assomiglia alle altre, con le parole e i silenzi che ci verranno spontanei.
– Sa, in questo periodo ho scoperto che scrivere mi fa bene.
Piccola luce, forse barlume: la invito a continuare.
– Non pensi a libri come i suoi, eh, niente di tutto questo. Magari scrivo tre volte la lista
della spesa, ma devo usare la penna e scegliere fogli adatti. Oppure butto giù lettere a
persone che non le riceveranno, oppure memorie, o riflessioni. Alla fine mi sono
comprata un grosso quaderno: ogni giorno mi metto lì e scrivo, pensi che ho copiato
interi brani di libri e una volta ho tentato perfino di trascrivere i dialoghi di un film che
adoro. Il punto non è cosa scrivo, ma è che quando lo faccio muovo le mani.
– Me lo spieghi meglio.
– E’ come quando riparo i mobili a casa, un’altra mia passione. Il mio lavoro è
lontanissimo dalla manualità, ma se uso le mani tutto vola via: devo concentrarmi solo
su quello, è impossibile mantenere vive le angosce. Adesso ho scoperto che scrivere
non è solo un’attività intellettuale, è anche muovere le mani.
Ride.
– Sono diventata un’operaia della penna, per autocura.
Gioco, partita, incontro: ha già vinto. Ha imboccato la sua Via e non lo sa, lo noterà passo dopo passo.
Il punto non è che scriva, ma che muova le mani: il suo istinto l’ha già portata dove tonnellate di studi psicologici e scientifici avrebbero voluto indirizzarla. Non ha avuto bisogno di esplorare siti e libri, qualcosa in lei sapeva: è stata attenta a ricevere i messaggi che affioravano. Qualcosa l’ha spinta ad agire, a non restare in un’apatia riflessiva da intellettuale (lo è) che si avvita intorno a un’ossessione, e nemmeno al pensiero positivo che tira via veloce sorvolando sulla sostanza. Muove le mani. Scrive, quindi muove le mani. Tutto lì. Decine di libri sono nati così, li hanno definiti salvifici perché affrontano il lutto e lo trasformano in arte: la verità è che tutti nascondono una parte molto più prosaica, cioè il
movimento delle mani di chi li ha creati. L’idea è che esista una “medicina narrativa”: si
armeggia nella psiche, si cercano motivazioni giù nel più buio recesso che ignoriamo, ed è
tutto bello e vero. Concordo: questo approccio vale e si deve portare avanti. Ma un altro
aspetto pratico, meccanico, energetico non dovrebbe sfuggire: muovere le mani impegna
emozioni e razionalità, diventa impossibile concentrarsi su altro. Scrivere, quindi, è (anche) mero esercizio motorio che salva dal trauma e accompagna a una nuova e migliore realtà. E’ una visione forse dissacrante per il sacro concetto di scrittura come mente-che-eleva-e-fa- evolvere-la-società, ma ogni approccio di medicina integrata in fondo un po’ lo è.
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