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Sélim Nassib anteprima. Il tumulto

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I rischi del giornalismo: “«Se resti… Hai scritto un articolo su di noi, su Hezbollah, e c’è gente che… Che bisogno ne avevi?… Trova una barca… qualunque cosa… se non vuoi che ti rapiscano».”

Rimedi per sopportare la guerra: “Rocco tira fuori un involto di carta dalla tasca, lo apre e me ne mette il contenuto sotto il naso, una polvere beige, insieme a una banconota arrotolata a cannuccia. Eroina, dice. Senza starci a pensare aspiro una strisciata in una narice e una strisciata nell’altra, e l’effetto è immediato. Niente di pazzesco, in realtà, nessuna visione psichedelica né afflusso di adrenalina né elefanti rosa, semplicemente uno scatto, un leggero spostamento di coscienza che nel giro di pochi secondi rende sopportabile il momento.”

Un simbolo biblico: “Vedendo Isacco tornare sano e salvo, la madre ha cacciato un grido ed è crollata morta. La vittima è lei, Sara. Lei e il montone. Il suono dello shofar ha due modalità, una uniforme e regolare che vuol dire: il mondo è in ordine, il sole sorge e tramonta, c’è un futuro; un’altra spezzata e irregolare che rappresenta il grido di Sara e significa: il mondo è un caos privo di senso, un disordine spaventoso nel quale i padri sono capaci di uccidere i figli senza battere ciglio”.

La memoria dell’Olocausto: “Mi torna in mente la storia terrificante di quegli uomini riconoscibili dal membro circonciso a cui viene detto di spogliarsi ed entrare in grandi stanze che sembrano bagni pubblici, poi le porte vengono chiuse, ma dalle docce non esce acqua. Mi pare impossibile, dev’essere una leggenda destinata a terrorizzare i bambini, non una leggenda di qui, ma di lassù, di quel continente immaginario che è l’Europa. Io sto qui.”

È in libreria Il tumulto di Sélim Nassib (Edizioni E/O 2024, €19,50, pp. 384 con traduzione dal francese di Alberto Bracci Testasecca).

Sélim Nassib, nato e cresciuto a Beirut in una famiglia ebraica di origine siriana, è stato inviato speciale per il quotidiano francese Libération durante la guerra in Libano. Tra i suoi lavori più celebri si annoverano Ti ho amata per la tua voce, dedicato alla celebre cantante egiziana Umm Kalthum, il romanzo L’amante palestinese e la raccolta di racconti Una sera qualsiasi a Beirut. Nel 2024 è uscito il suo ultimo libro, La ribelle di Gaza, scritto in collaborazione con Asmaa Alghoul e pubblicato da Edizioni E/O.

Youssef cresce a Beirut, circondato da un padre appassionato di poker e una madre riservata. La sua quotidianità è intrisa di sensualità e mistero, in un mondo in cui le melodie ebraiche della sua casa si fondono con i suoni arabi delle strade. La crisi di Suez è un’eco lontana, mentre al centro dei suoi pensieri emerge il risveglio della sessualità, con il tumulto di paura e desiderio che sente crescere dentro di sé. Dieci anni dopo, nel maggio del 1968, Youssef si avvicina alla politica con l’obiettivo di conoscere ragazze, ma finisce per essere trascinato sul serio dagli eventi storici. Si ritrova in prigione e scopre che il paese è sull’orlo di una guerra civile. Quando l’esercito israeliano invade il Libano per cacciare i combattenti palestinesi, Youssef, ormai giornalista a Parigi, decide di tornare a Beirut per documentare dall’interno l’assedio della sua città. Tra macerie e devastazione, Youssef riscopre le radici del proprio destino.

Il tumulto è un libro profondo, sofferente, ma anche una poesia di amore per Beirut che racconta uno degli ultimi grandi e terribili conflitti del XX secolo.

Carlo Tortarolo

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Mamma ha assunto una donna di servizio, una curda di cui non so neppure il nome. Le abbiamo messo un pagliericcio in cucina, ma per andare a dormire ha aspettato che tutte le luci di casa fossero spente. Tra le nostre porte c’è solo la larghezza del corridoio. Non sento il suo respiro, nessun rumore, è come se non ci fosse, ma io so che c’è.

Il padre si era seduto sul divano per parlare. In piedi accanto a lui, immobile, con un vestito colorato addosso, lei aveva aspettato che le dicessero cosa fare. Un velo bianco trasparente le copriva le folte trecce. È una bambina, aveva detto mamma. La prenda in prova per una settimana, aveva risposto il padre, vedrà. Alla fine si era messo i soldi in una tasca interna, ricordo il suo gesto ampio e sicuro, poi se n’era andato lasciandola da noi. Quando si è chiusa la porta lei non ha avuto reazioni, è rimasta zitta e si è messa a seguire mamma in cucina e dappertutto. Mamma sembrava più smarrita di lei, voleva una donna di servizio e si ritrovava con una ragazzina. Per me era una marziana, un’inviata del mondo esterno a domicilio. Femmina e curda: mistero doppio.

È lì, in un angolo della cucina, a pochi metri da me. Potrebbe sospirare, rigirarsi nel suo giaciglio. Qualcosa di scombussolante è entrato nel mio territorio, la sua presenza, la semplice idea della sua presenza.

Da una parte c’è la casa e dall’altra la camera di papà. Quella camera è sua, il resto è collettivo. Le sorelle maggiori di mamma vengono di continuo, si levano le scarpe, nessuno può dire questa è casa mia, nessuna porta si chiude a chiave, a parte quella di papà. Il mio letto si trasforma in divano durante il giorno e il tavolo da pranzo è quello su cui faccio i compiti. Un unico spazio, la casa, un unico corpo, la famiglia di mamma, composta soprattutto da donne che si assomigliano e sono fatte della stessa lega. Chiunque può entrare, la porta che dà sulla strada rimane aperta, siamo costretti a vivere sotto gli occhi di tutti. Mi resta solo la notte per avere un po’ di solitudine, in sala da pranzo, ore e ore senza correre il rischio di essere sorpreso.

Forse anche lei sta con i sensi all’erta, ha gli occhi aperti, trattiene il respiro. Il mio letto cigola ogni volta che mi muovo, probabilmente lo sente. Prima, quando lei non c’era, potevo svegliarmi nel cuore della notte, girare a piedi nudi per casa, uscire sul balcone a guardare la strada deserta. Mi toglievo la giacca del pigiama, mi stendevo sul pavimento fresco in mezzo alla corrente d’aria e restavo con lo sguardo nel nulla senza preoccuparmi dell’espressione che assumevo. Mi dissolvevo lentamente, e le smorfie, l’orrore, tutti i mostri che abitano dentro di me erano liberi di risalire in superficie.

Ora rimango pesantemente steso sul letto, la mia mente non ha più la possibilità di dilatarsi per occupare lo spazio. La sento, sono obbligato a passarle accanto per andare a fare pipì. Non è che mi disturba, quella ragazza, mi tiene prigioniero.

Sta dormendo abbracciata al cuscino, con una goccia di saliva all’angolo delle labbra. Molto estranea. Pelle olivastra, più scura della nostra, corpo plasmato dallo sforzo fisico, flessuoso, solido, ma rilassato, tornato infantile nel sonno profondo. Mi accovaccio accanto a lei. Ha le ciglia lunghissime, come coricate sulle guance, con le punte che tremano, e respira con il naso. Le labbra a riposo sono più carnose, sembra quasi che tengano il broncio. Mi chiedo come sorridano, se sorridano. Forse sta solo facendo finta di dormire, forse le piace essere guardata. Resto così per un minuto intero.

Avvicino l’orecchio. Ha il respiro regolare, sta davvero dormendo. Allungo lentamente la mano, afferro l’angolo del lenzuolo che le copre la pancia e lo sollevo con delicatezza. Ciò che scopro al disotto è che non usa mutande come le nostre, ma una quantità di stranezze. Forse è normale, visto che è curda. Una stoffa grossolana le passa tra le gambe, le avvolge i fianchi e si annoda intorno alla vita. Incredibile che l’unica barriera sia quella stoffa piegata in vari strati. Non è neanche stretta, basterebbe scostarla un po’. La tiro, si muove appena, ma la ragazza sente la pressione, si volta, emette un gemito. Ora è scoperta, coricata su un fianco, con le gambe non più unite, come se nel sogno camminasse.

Se fosse stata una cugina o una vicina non avrei osato, ma questa è stata venduta dal padre, non ha legami, non appartiene a nessuno. Sposto la stoffa. Sotto è buio. Al posto di quello che abbiamo noi maschi non c’è niente, solo un’ombra. Il mio sguardo risale verso la faccia. Ha gli occhi spalancati e mi sta fissando.

Scossa immobile. Non grida, rimane con la testa sul cuscino, non ha nemmeno l’aria stupita, non ha l’aria di niente. Sta lì e basta. Occhi aperti che mi guardano. Una curda, una ragazzina curda, quasi un’altra specie. Fatto sta che le ho posato la mano sull’inguine o quasi. È troppo intenso, dovrei fare qualcosa di più o indietreggiare, ma sono sicuro che qualunque cosa io faccia lei resterà così, con quelle ciglia interminabili, quegli occhi enormi e nerissimi, quel viso in cui nella forma stessa delle ossa è inciso che si sottometterà a tutto. E che niente potrà ferirla. Riconosco la sua espressione, è la stessa che aveva quando il padre l’ha fatta entrare in casa e quando se n’è andato lasciandola qui. Da quando è nata permette agli altri di fare di lei ciò che vogliono, non riesce a immaginare che le cose possano andare diversamente. È un animale docile con il fuoco nelle pupille.

Tolgo lentamente la mano dall’inguine e le do un pizzicotto brutale. Lei fa un gridolino che subito reprime. La vedo arrabbiata e sono sicuro che ce l’ha con se stessa per aver gridato. Almeno ho sentito la sua voce. Continua a guardarmi, il dolore le ha semplicemente reso gli occhi più umidi e luccicanti. Le do un altro pizzicotto ancora più forte. Non grida, avevo visto giusto. Stringe i denti, si è calata nella sfida come quei pesci di scoglio a cui è impossibile far mollare la presa. Non si difende, non si ribella. Ha il potere terribile dell’abitudine a subire. È più forte di me. In ginocchio, chino su di lei, mi scateno con entrambe le mani, le colpisco spalle e gambe con sempre maggior forza, risuona il rumore degli schiaffi, ma lei non batte ciglio.

Qualcuno si è alzato. Mi interrompo per ascoltare, e anche lei si mette in ascolto. Per la seconda volta siamo entrambi immobili e silenziosi. Respiriamo forte cercando di non farci sentire, ma no, non succede niente, la casa è immersa nel sonno. Continuo a stare sul chi vive, lei pure. Poi mi si lancia addosso, all’improvviso ho le sue braccia intorno al collo. Mi coglie talmente di sorpresa che cado all’indietro, lei si placca sopra di me e il suo corpo si adatta al mio con forza e precisione incredibili. Mi stringe quanto può, nascosta nel mio collo, respirandomi nell’orecchio come se singhiozzasse, continuando a spingere, aggrappata, incollata, confusa con me. Per qualche secondo sento una cosa strana, la sua impronta. Il calore passa dal suo corpo al mio paralizzandomi. Faccio leva su un gomito e la respingo, con un gran colpo di reni riesco a farla ruotare, sono sopra di lei, ma non mi molla, lotta come una forsennata, emette gridolini appena percepibili, si lascia trascinare per terra, pelle nuda contro il marmo del pavimento. La riempio di pugni, ma è troppo vicina, non ho una buona presa, vado nel panico. Mettendocela tutta riesco finalmente a liberarmi e mi rialzo.

Mi vedo attraverso i suoi occhi in piedi in cucina, pallido, spettinato, senza fiato, con il pigiama aperto. E lei che rimane lì per tre quarti nuda con lo sguardo duro e umido sempre puntato su di me.

Sono tornato nel mio letto. Non ne ho parlato con nessuno. Il giorno dopo mamma l’ha restituita al padre.

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