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Semplice la felicità/Semplicemente in due. Intervista a Jean-François Sénéchal

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Incontrare Jean-François Sénéchal è avere la possibilità di incrociare uno sguardo narrativo di grande acutezza.

Classe 1976, Sénéchal è uno scrittore canadese per ragazzi che vive a Montreal (Canada francofono). La sua formazione però non è squisitamente letteraria, vista la sua laurea in Antropologia. È probabile sia questo particolare nel suo percorso formativo a fare la differenza. Almeno così possiamo interpretarlo dopo essere riemersi dai romanzi che mettono al loro centro la figura di Chris, ragazzo con un lieve ritardo cognitivo ritratto appena dopo il passaggio alla maggiore età.

Proprio la voce di questo personaggio all’interno di Semplice la felicità e di Semplicemente due si fa largo per raccontare cosa gli accade e come si relaziona con il mondo circostante.

I romanzi, pubblicati in Italia rispettivamente nel 2020 e nel 2021 dalla torinese Giralangolo e tradotti egregiamente da Claudine Turla, raccontano quindi la sua vita, il suo impegnarsi a viverla in modo autonomo da quando la madre lo abbandona – proprio al compimento della maggiore età – a quando imbastisce una relazione con una ragazza, ritrova il padre, scopre che diventerà a sua volta padre.

È un dittico molto scorrevole, ma non superficiale, quello che Sénéchal crea nei due capitoli fino a ora proposti ai letotri (presto se ne aggiungerà un terzo e ultimo), dove la regola prima è fare e non compatirsi.

Perché Chris non riflette sulla sua situazione autocommiserandosi, bensì mettendosi in gioco; guarda a quello che non ha, ma solo per comprendere quanto può fare per cancellare lo scompenso e quindi farlo. Chris guarda all’universo di relazioni umane per stabilire un contatto di mutuo scambio, di scambio paritario.

Attorno a lui, uno stuolo di comprimari tutti ottimamente caratterizzati, che sostengono e danno notevole peso specifico alla storia. Che è poi quella in cui un qualsiasi ragazzo si trova alle prese con il dover badare a se stesso, direttamente e non per interposta persona. Nel caso specifico, sia o meno normodotato.

Indubbiamente Chris ha attorno a sé persone che lo trattano quasi sempre entrando in un rapporto di parità, che non lo allontanano dalla sua volontà di essere autonomo e quindi loro eguale.

Sarà proprio per la capacità di relazionarsi col mondo esterno di cui si diceva prima? Il suo farlo con una semplicità e una sincerità che non permettono pietismi o paternalismi di sorta? Sarà perché la società descritta da Sénéchal non è quella italiana e quindi, forse, è un po’ più avanti rispetto alla nostra, nel bene e nel male? Oppure perché la società in genere è più avanti rispetto a quanto noi pensiamo sia?

Di fatto, questo punto di vista porta i due romanzi fuori dalla zona protetta in cui l’handicap, il problema fisico o mentale, viene visto appunto come problema, e chi ne è portatore come l’elemento che necessita esclusivamente di aiuto, di comprensione. Diventa perciò un elemento narrativo puramente retorico.

Sénéchal prova invece a raccontare una vita normale, direi. Una vita in cui Chris incontra alti e bassi e risolve varie criticità come tutte le altre persone.

L’intervista mi è stata rilasciata a Bologna negli spazi di SalaBorsa, durante il tour italiano dell’autore, proprio a ridosso della Fiera del libro per ragazzi 2022.

Sergio Rotino

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Le faccio i complimenti per aver creato un personaggio, il suo Chris, in cui l’handicap non è mai il nucleo centrale della vicenda.

«Grazie. La mia intenzione era soprattutto quella di non scrivere un romanzo su Chris in quanto personaggio affetto da deficit intellettivo, ma semplicemente “la storia di Chris”.»

Non voleva nemmeno scrivere un romanzo in cui Chris vestiva i panni della vittima…

«Scrivendo ho fatto molta attenzione a che questo non succedesse.»

Mi ha molto impressionato la voce di Chris. Una voce che definirei “diaristica” oltre che molto difficile da rendere e tenere per così tanto tempo. Perché ha deciso di utilizzare come voce narrante quella in prima persona?

«Le rispondo in maniera indiretta. A mio parere, in qualche modo è il personaggio a scrivere se stesso durante le sessioni in cui viene creato un romanzo. Quindi per quanto Chris posso dire di averlo creato attraverso la scrittura e di averlo conosciuto proprio attraverso di essa. È attraverso la scrittura che ho sviluppato il linguaggio di Chris, lo stesso che delinea un po’ anche il suo ritardo mentale nel modo in cui parla.»

Sia in Semplice la felicità (Le boulevard) che in Semplicemente due (Au carrefour), se non teniamo conto dei dialoghi, il suo personaggio parla attraverso una specie di monologo interiore. È come stesse scrivendo una lunga lettera alla madre, che lo ha abbandonato dopo il compimento dei diciotto anni. È la madre il nodo centrale della storia di Chris?

«Sicuramente lo è. Il nodo centrale della ragion d’essere di questo personaggio è la relazione, interrotta, fra lui e la madre. Tutto il ciclo dei romanzi che vedono Chris al loro centro, è determinato dalla relazione fra questi due personaggi. Il fatto che il figlio si rivolga costantemente alla madre assente, mi ha permesso di stabilire delle relazioni profonde fra Chris e il lettore, forse anche fra Chris è me stesso. Comunque, molto di quanto è raccontato in questa coppia di romanzi troverà una motivazione precisa nel terzo e ultimo capitolo, che presto dovrebbe essere tradotto in Italia.»

Chris ha un ritardo cognitivo, che però nei romanzi non pare intaccare la sua volontà a essere autonomo, a essere se stesso…

«È così, certamente. Chris non si rimette in questione, come non lo facciamo noi in genere. Voglio dire: Chris non è un essere perfetto come nessuno di noi lo è. Ragione per cui penso che ci siano dei comportamenti di Chris, degli aspetti della sua personalità, in cui è lui stesso a piacersi di meno, ad amarsi di meno. Ma durante lo sviluppo dell’arco narrativo in realtà riesce ad accettare sempre meglio il suo deficit cognitivo.»

Quanto le appartiene il carattere di Chris? E quanto le appartengono i luoghi in cui Chris agisce?

«Molto. Mi piace dire che Chris sono io, ma in meglio. Se vuole è un modo ironico per dire di questa vicinanza. Aggiungo una cosa. A volte vediamo le persone con un deficit cognitivo come persone che hanno qualcosa in meno. Ma come scrittore, per prima cosa non volevo il mio personaggio fosse qualcuno che ha un deficit di questo tipo. Io lo volevo come fosse una persona completa, che ha delle grandi qualità. Qualità che anche io vorrei avere.»

Quindi potremmo definire Chris un simbolo?

«Sì.»

Però è possibile definire questa sua trilogia, almeno i primi due titoli, come un classico eccentrico del romanzo di formazione?

«Sono molto contento che lei abbia usato la parola “eccentrico” perché, come scrittori, si cerca sempre di non ripetere quanto è stato già fatto da altri, si cerca di portare a ogni prova qualcosa di nuovo. E questo anche se è stato fatto tutto, detto tutto, scritto tutto. Però è il punto di vista con cui abbordiamo il tema che deve essere originale. Spero di esserci riuscito.»

Quali sono i riferimenti letterari per quanto riguarda questa serie, al di là di On the road di Jack Kerouac, che viene molto citato in Semplicemente la felicità

«Ci sono molti romanzi che possono essere citati come riferimento per la mia serie, però non parlano dei temi che vi ho inserito.

Per fare un esempio, La vita davanti a sé di Romain Gary. Ecco, questo è un romanzo che può rientrare fra quelli che mi hanno aiutato a definire il tema della serie. Ma non posso darlo come un riferimento preciso, perché non l’ho riletto prima di iniziare a scrivere di Chris, ma solo dopo. Ed è solo dopo che mi sono detto che l’influenza di Gary, nello specifico di questo suo libro, è presente nella stesura della mia trilogia. Questo è vero però per molti libri. Potrei rileggerli e notare le influenze che hanno avuto su di me e sulla mia scrittura. Ma penso che in realtà c’è proprio una idea di “digerire” i libri per non ripetere il già scritto, per essere il nuovo.

Comunque il lavoro di creazione e scrittura di storie è sicuramente, per prima cosa un lavoro di “digestione”.»

Il suo Chris è un osservatore. Non è in sincrono con il mondo, però vi ragiona attorno con precisione. Soprattutto riesce a vedere nel funzionamento della società cose che noi non riusciamo nemmeno a focalizzare… Era una caratteristica, una necessità che voleva per il suo personaggio?

«Sì, certo. Ma è anche una mia necessità, quella di vedere il mondo attraverso gli occhi del personaggio che ho creato. Non è un mondo ideale, questo in cui si vive, ma mi consente di mettere in luce quello che è la parte più bella di Chris. In particolare a livello di relazioni umane. Che ci sono, esistono, e nello specifico della mia serie formano tra il mio personaggio e chi lo circonda soprattutto relazioni di aiuto reciproco, di solidarietà. Sono relazioni mai a senso unico. Chris ha certo bisogno degli altri, e gli altri lo aiutano, ma sono proprio loro a essere molto sostenuti dal mio personaggio. Quindi ritorna il concetto che Chris non è una vittima.»

Quanto le sono cambiati fra le mani i personaggi, durante la scrittura dei romanzi?

«Sono cambiati tutti. Joe Lafarge è un buon esempio per spiegare questa mia affermazione. All’inizio era solo un personaggio molto secondario che teneva uno stand al Marcado, questo mercato delle pulci che cito, poi lentamente ha preso sempre più spazio. È accaduto perché rispondeva a un bisogno, a una esigenza, che in prima battuta non avevo concettualizzato.»

Il suo ruolo?

«Esattamente. Lui ha un ruolo importante nell’economia della storia. A tutti gli effetti a lui, da un certo punto in poi, spetta essere il padrino, o anche il padre, per Chris. Diventa cioè la figura di riferimento per il mio personaggio che non avevo assegnato mentre ero intento alla stesura della storia. Quindi è stato Joe a dirmi “Sono qui, lo posso fare”. È andata così.»

Parlando di personaggi secondari… I suoi due romanzi, ne sono decisamente pieni. Andando sempre alla ricerca di riferimenti letterari, le chiedo se in qualche modo c’entri la saga dei Malussenne ideata da Daniel Pennac…

«Mi piace molto Pennac. Forse è una influenza che proviene da lui, dal come ha impostato quei suoi romanzi. Però è un buon paragone, lo prendo come tale e la ringrazio.»

Abbiamo detto che Chris non si isola dal mondo anzi, vi è dentro per intero. Nei romanzi lo vediamo in continuo muoversi da quello che lui sa fare e offre agli altri a quanto gli altri si adoperano per restituirgli in aiuto. Una specie di circolo virtuoso, insomma. Anche questo è un carattere del personaggio che è venuto fuori ragionando sulla scrittura?

«No, questo era già presente nella ideazione del personaggio. Mi piaceva molto l’idea di presentare dei personaggi secondari che avevano loro stessi dei limiti. Quindi mancanze, sofferenze ecc. che Chris poteva in qualche modo colmare.

C’è l’idea della complementarietà fra Chris e molti dei personaggi che si trovano all’interno dei romanzi.

Posso dirle che tutti abbiamo dei limiti, che compensiamo grazie alle persone di cui ci circondiamo.»

Un esempio?

«Mi capita spesso, quando incontro gruppi di ragazzi, di dire che se avessi voluto diventare un calciatore professionista o un astronauta avrei potuto provarci, ma senza riuscirci perché non ne ho le capacità per diventare l’uno o l’altro. E allora sono diventato scrittore. Però ci sono altre persone che lo fanno più che bene. Dico questo per fa capire come ognuno di noi ha dei limiti, ma la cosa bella del vivere in società e che attorno a noi possiamo trovare persone che ci sono complementari e che con il loro sapere ci permettono di crescere.»

È stata la sua formazione di antropologo a farle creare un personaggio come Chris pronto a restare nella comunità sociale e a non autoisolarsi, a diventare nell’ottica del romanzo uno dei motori della stessa? È da questo essere dentro le dinamiche sociali che Chris decide di recuperare la dimensione della famiglia? Tenendo conto che la famiglia, padre e madre, lo ha di fatto abbandonato?

«Rispondo a questa seconda domanda dicendo che durante tutta la storia, Chris costruisce la propria famiglia. La sua famiglia è la comunità.

Per quanto riguarda la mia formazione di antropologo, essa ha sicuramente influenzato il mio modo che ho di pormi davanti agli eventi, come scrittore. Dico questo perché la grande domanda, la domanda che da sempre mi interessa e che è sempre al centro di tutti i miei libri è: come vivere insieme, come vivere meglio insieme? E cosa implica questo in termini di responsabilità e di libertà. Chris è per me un modo di mettere sotto i riflettori la vita all’interno della nostra società.»

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