Prendendo avvio dalla citazione di Ted Chiang in esergo, le Narrazioni di Sergio Rotino muovono decise verso una destinazione, per quanto non sia dato sapere quale.
Di sicuro è un estremo (un minimo o un massimo, un’estrema gioia o un estremo dolore, o piuttosto una estrema ferocia, come suggerisce Giusi Drago nella prefazione) così come è portata all’estremo la scrittura stessa.
In primo luogo, estrema espansione della misura del verso e dell’incalzare del ritmo che costringe il lettore a una corsa senza fiato, sospinta dalle parole che scorrono inesorabili, dal susseguirsi delle ripetizioni, allitterazioni, assonanze, consonanze e rime interne. Tutte figure del ritmo che concorrono a creare una musicalità ipnotica, ammaliante.
La scrittura che si precipita verso i margini della pagina (nell’impaginato orizzontale per accogliere i versi ipermetri, che qui non è possibile riprodurre per ragioni di gabbia) impone lo sforzo di sostare sulle parole, opponendo la resistenza dell’attenzione al moto centrifugo della lingua.
A questa necessità vengono in aiuto le emersioni grafiche delle stringhe in corsivo e l’insinuarsi di versi brevi (spesso in posizione di chiusa), che non di rado imprimono una frenata alla lettura determinando un senso di spaesamento.
Non c’è punteggiatura, non ci sono lettere maiuscole, le uniche pause concesse al respiro sono date dalla fine di ogni verso e di ogni componimento. Uno stile, questo, funzionale a una narrazione che mira a cogliere il “vero” nella sua fluidità, in cui le parole non cercano di segmentare o ordinare ma rivendicano il loro essere le cose, illuminandole.
Molteplici sono i riferimenti alla luce, contrapposta al “nero” (altra parola ricorrente con valenza simile è “vuoto”, colmato dal pieno stesso della scrittura).
È la nominazione stessa a inverare, a creare la vita, ad aggiungerle valore.
Il discorso non procede linearmente da un inizio a una fine, è magmatico, ritorna su sé stesso (smonta e ricompone la vita, cancella le forme). Le cose accadono, scorrono, si voltano, mettendo in questione la progressione temporale alla base della forma più tradizionale del narrare.
Spetta alla scrittura illuminare il “vero” nel nero (con significativa annominazione). Sono le parole che nominandole sostanziano le cose: res sunt consequentia nominum. L’essere delle cose è nel loro essere dette, più che percepite come nell’assunto berkeleyano.
È quanto si afferma nel primo componimento, che risulta anomalo aprendosi con tre versi relativamente brevi e pregnanti, scanditi dall’anafora: «ogni cosa / ogni cosa è già stata scritta quindi / ogni cosa è» (anafora più avanti ripresa da una ulteriore ripetizione «ogni cosa è detta», evidenziata dal corsivo e ribattuta dalla rima interna con aspetta e imperfetta).
Si imposta fin dall’inizio l’idea, rimarcata nella prefazione, che le narrazioni a seguire siano piuttosto metanarrazioni, risolvendosi in un vero e proprio corpo a corpo della voce narrante con quanto narrato, specie se si parte dal fatto che «ogni cosa è già stata scritta» e quindi si sottintende l’annosa domanda di cosa valga la pena dire, e come.
Le cose del resto sono state «già dette altrove da altri dette senza successo alcuno» e quindi lo sforzo sarebbe dirle in un altro modo, trovare, come si afferma sempre nella prefazione, “un vettore di comunicazione con mondi altri”, un contatto con una lingua aliena o una nuova lingua comune da fondare sulle ceneri della precedente.
Sempre tenendo presente che l’atto stesso del narrare rischia di risolversi in una menzogna, un inganno, una illusione.
Un fallimento, in definitiva, che però non ci porta a desistere dal tentativo, dal “fallire meglio” come direbbe Beckett, al cui monologare torrenziale la scrittura di Rotino si dimostra particolarmente affine.
«Poesia come massimo grado della sconfitta./Poesia come massima distanza dalla resa» scriveva Christian Tito. E la sconfitta sta soprattutto nel fatto che il “dire” la cosa è alla radice della sua esistenza, ma anche della sua alterazione/falsificazione (è impossibile conoscere i dettagli di un sistema senza perturbarlo, secondo il principio di indeterminazione di Heisenberg).
Il muso di volpe che emerge dal buio in una poesia, appena si fa presente e può essere visto e detto e quindi esistere, è perso per sempre. Il principe di Biancaneve si mostra più attratto dalla teca che dal corpo al suo interno (ci si ferma dunque alla forma della narrazione essendo il contenuto di per sé irraggiungibile e forse anche meno interessante). E la scrittura si offre come la via di uscita dal bosco in cui si smarriscono Hansel e Gretel, ma è effimera come le molliche ghermite dagli uccelli o può essere una luce-trappola come quella della casa della strega.
Come nel mito platonico della caverna, siamo voltati contro la parete («l’ombra dell’uomo» diventa «cieco muro») dove scorrono le ombre, mentre alle nostre spalle è il fuoco che illumina il vero rischiando tuttavia di accecarci se ci giriamo a guardarlo.
Un fuoco che, quale sommo fallimento e insieme somma perfezione/catarsi, potrebbe divampare distruggendo la scrittura stessa, azzerando tutto quanto è stato detto (vedi il componimento 451) per rifondare una lingua nuova.
Francesca Del Moro
Recensione al libro Narrazioni di Sergio Rotino, Seri editore 2021, pagg. 87, € 10.00