L’affaire scoppiò nel 1998, svelato da Christophe Bident in Maurice Blanchot Partenaire invisibile con un ritardo di trent’anni esatti, morti imputato (Jean Beaufret 1907-1982) e parte lesa (Emmanuel Lévinas 1906-1995), vivi l’accusa (Maurice Blanchot 1907-, Roger Laporte 1925-, Jacques Derrida 1930-) e la difesa (François Fédier 1935-)1. A mezza estate 1967 Fédier aveva lanciato il progetto di una Festschrift per il maestro, cui subito aderirono Derrida e Blanchot, seguito a ruota dal fido Laporte2. La corrispondenza tra Fédier e Derrida inizia con tre lettere amichevoli di Fédier del 16 settembre, del 20 settembre e del 22 novembre 1967, centrate su tre libri derridiani appena usciti: La voix et le phénomène, che suscita la sua ammirazione, L’écriture et la différence, che giudica oscuro, e De la grammatologie, di cui rifiuta la forma ma abbraccia il contenuto. Derrida risponde il 27 novembre con una lunga lettera dattiloscritta, dove in chiusa affronta una faccenda assai più seria: gli sono appena stati riferiti dei discorsi apertamente antisemiti di Beaufret, grevi e reiterati; “il m’est absoluement impossible, malgré mon ahurissement, de mettre en doute ce qui m’a été ainsi rapporté”3; in verità, diversi anni prima aveva nutrito un sospetto, ma siccome le circostanze non erano chiare, aveva assolto Beaufret mettendo sotto accusa la malafede altrui; ritira il suo contributo alla Festchrift, da lui originariamente offerto proprio per rompere l’isolamento cui Beaufret era stato costretto da una sorta di congiura che potrà raccontare più dettagliatamente a voce; tacerà il motivo della sua decisione a tutti fuorché all’amico comune Michel Péguy (1930-). Fédier replica il giorno stesso simmetricamente con una lunga lettera teoretica, la cui chiusa suona:
Je ne peux pas croire ce que vous affirmez – et malgré l’authenticité de l’information, pour vous. Cela fait maintenant 12 ans que je connais J. Beaufret, en le voyant très souvent, et en continuant maintenant encore à le voir. Si J. Beaufret avait seulement une tendance à l’antisémitisme, je crois que je l’aurais remarquée. Je me fais aussi une image de mon maître, et l’idée qu’il puisse y entrer de l’antisémitisme me semblerait ridicule si vous n’insistiez tant à balayer tout soupçon. Non. Mais non. Cela ne va pas avec lui: ce n’est pas de Jean Beaufret le propos massif et vulgaire. Je n’arrive pas à le croire. Si peu, que je n’oserai pas lui parler de cela directement, car je sais combien profondement il en serait blessé – d’une de ces blessures d’autant plus douloureuses qu’on les renferme mieux. / Et vous ajoutez: “il y a plusieurs années”! Je ne peux m’arrêter. Vous me donnez vous-même un indice. Je ne veux pas non plus discuter de réels détails, qui me prouvent à moi qu’il n’en est rien. C’est absolument possible, car je vois à nouveau se dessiner autour de J. Beaufret un ignoble complot, qui l’a déjà une fois abattu, et qui recommence. Etes-vous bien sûr, cher Jacques Derrida, de ce que vous me dites? Car enfin, si c’était vrai, je le saurais!! Je ne serais pas le plus surpris. / Je vois s’entrouvrir des abîmes horribles – non pas chez Jean Beaufret, qui pour moi est l’exemple même de l’innocence, d’une terrible et enfantine vulnérabilité, l’opposé de toute crispation haineuse, de toute sournoiserie. Car c’est cela, Jean Beaufret. Et je ne veux pas parler plus de lui – car c’est le découvrir dans sa réelle faiblesse: d’être un homme perdu, hors de la pensée – sans le moindre germe de fanatisme, de méchanceté – pour moi l’exemple d’un être authentiquement moral: c’est à dire sans aucun penchant au mal. / Je m’en veux de vous dire cela. Et je vous demande instamment de ne jamais faire mention à qui que ce soit de ce que je viens de vous écrire. Car c’est mon jugement sur Jean Beaufret, et je n’ai rigoreusement aucun droit, aucune possibilité, aucune instance pour le juger. / Tout ceci m’effraie enfin. Car j’y entrevois de tels cheminements obscurs – que ce soit précisément vous, qui en dehors des élèves de J. B., ouvrez la possibilité de la philosophie à Paris, qui soyez atteint – que cela me fait retomber dans un pessimisme violemment misanthropique. Je ne connais pas qui colporte ces rumeurs. Par contre je connais Jean Beaufret, et s’il est quelqu’un que je respecte totalement, c’est lui. Par conséquent vous avez ma réponse. / Pour ce qui est de votre texte, si vous me le demandez vraiment, je vous le rendrai, bien sûr, avec beaucoup de peine. Voyons-nous, et parlons.
Derrida non fa in tempo a rispondere, che il primo dicembre Fédier incalza:
Je sais maintenant qui est votre informateur: Jean Beaufret a reçu une longue lettre de R. Laporte. Dans l’ignorance de vos sources, j’ai pu, avec ma dernière lettre, vous sembler un peu vacillant ou peu sûr. Maintenant au contraire, il n’y a plus de doute! Voyons-nous sans tarder: je conteste formellement, sans la moindre ombre, ce que dit R. Laporte. Voyons-nous pour déterminer comment faire éclater la vérité. / J’en parle à Michel Deguy, pour qu’on se rencontre éventuellement dès ce week-end. Dans toutes les perspectives, je me réjouis de cette rencontre, car elle fondera entre nous un réel rapport de franchise.
L’incontro ci fu, ma cinque settimane dopo. Deguy, compagno di studi filosofici di Derrida all’Ecole normale superieure dove all’epoca insegnava anche Beaufret che poi continuò a frequentare, descrive l’incontro in un’intervista a Dominique Janicaud del 26 novembre 1998: “A quel tempo c’era un sacco di visite al passage Stendhal [appartamento di Beaufret] (eravamo sempre quattro o cinque a cena, con Fédier, Vezin, Claude [compagno di Beaufret] e Jean); si era creata una specie di familiarità. Dunque, la prima reazione è stata dire: non si capisce molto bene, perché noi non s’è notato mai niente. Io ho avuto la sensazione, all’epoca, di una specie di montatura. […] feci una riunione nello studio del mio appartamento, rue de Vaugirard, alla quale assistevano Laporte, Derrida, Fédier, e dove Beaufret aveva accettato, in posizione di accusato, di sospetto, di giustificarsi – tutti eravamo estremamente imbarazzati. Alla fine, si stabilì una sorta di muto consenso sul fatto che non era impossibile che Jean Beaufret avesse fatto dei discorsi da tavola; un antisemitismo, diciamo, di tradizione. […]… Io, personalmente, non sono mai stato testimone di qualche segno di antisemitismo a casa di Beaufret”4.
(continua)
NOTE
1) Prima di allora, l’unico accenno all’affaire, così criptico da parere un pizzino (o così spiritoso da parere un pesce), era comparso nel poscritto derridiano datato «primo aprile 1973» a Éperons. Les Styles de Nietzsche: “Roger Laporte mi ricorda un incontro tempestoso – più di cinque anni fa e qui non posso riferirne la circostanza – nel corso del quale ebbimo entrambi a opporci, per altre ragioni, a un certo ermeneuta […]. Ne avevamo riparlato, dei testimoni lo confermano. Mi sono dunque assicurato della verità di questo racconto, dell’autenticità di questi ‘fatti’ di cui del resto non avevo ragione alcuna di dubitare. Tuttavia non ne serbo il minimo ricordo. Ancora oggi”.
2) Uscirà nell’ottobre 1968 come L’Endurance de la pensée. Pour saluer Jean Beaufret. Il pezzo forte ne è Zeit und Sein, inedito heideggeriano tradotto da Fédier, il quale conosceva personalmente l’autore per avere fra l’altro frequentato l’estate prima il seminario di Le Thor (nei mesi successivi l’aveva difeso in due numeri di “Critique” dalle prime accuse di filonazismo).
3) Marguerite Derrida mi ha proibito di citare le lettere del marito; cito questo unico brano perché è l’unico della lettera riportato da Bident nel suo libro. Bident aveva ricevuto in lettura l’intero dossier da Derrida, e pensò bene di fotocopiarlo (anche perché poi Derrida lo perse). Invitato come relatore ufficiale al convegno internazionale Maurice Blanchot, Communauté, Politique et Histoire, Nanterre 4-5 maggio 2009, posi a condizione di poter utilizzare per la mia relazione Mai 68, Avouable, Inavouable ? Entre Blanchot et Derrida il dossier, che Bident mi passò finalmente, in fotocopia della fotocopia.
4) L’intervista uscì nel 2001 in D. Janicaud, Heidegger en France. Deguy si staccò progressivamente tra il 1967 e il 1968 dalla cerchia di Beaufret per entrare in quella di Derrida, che lo chiamò nel gennaio 1969 a insegnare nella neonata Università di Vincennes. In una lettera del 9 aprile 2009, Deguy mi accennò a un antisemitismo umoristico in voga anche presso i dreyfusardi (intesi come idealtipo cui il giro aderiva), non virulento cioè come quello di Lutero o di Ezra Pound, e ribadì che l’accordo si raggiunse sull’idea che un tono simile poteva risuonare dai discorsi di Beaufret, il cui compagno era un proletario non particolarmente colto. (Nell’intervista però Deguy sosteneva il contrario.)