Margaret Atwood, tra le maggiori scrittrici canadesi, riscrive La Tempesta per il progetto Hogarth Shakespeare. In un suo pezzo pubblicato su The Guardian dice che, dopo numerose letture e l’inevitabile panico da impresa folle, l’ha riletta partendo dalla fine, fermandosi sulle ultime tre parole: set me free. Liberatemi. È Prospero a chiederlo al pubblico dopo aver inscenato una tempesta per vendicarsi di chi l’ha cacciato dal ducato, insieme alla sua bambina, perché troppo dedito agli studi di magia.
Liberatemi, dunque, dice. Ma da cosa?
La richiesta sottitende che vi sia un vincolo, un capestro, da cui essere sciolti. Qual è?
Atwood è scrittrice in grado di descrivere perfettamente i lacci della prigionia, lo fa in The handmaid’s Tale (Il racconto dell’ancella, Ponte alle Grazie, 2004), come in Alias Grace (L’altra Grace, Ponte alle Grazie, 2008), ma sa descrivere anche i lacci di un’immagine imposta prima di tutto da se stessi e da ciò che non si vuole o può ricordare, come in Surfacing (Tornare a galla, Baldini&Calstoldi, 2000), dove la rivoluzione interiore di una trentenne passa attraverso un rituale svolto sulla linea di confine tra l’asettico dell’emozione divenuta per lei impossibile e lo scabroso della vista di un airone morto “appeso a testa in giù a una funicella di nylon blu”; una linea che diventa chiave d’accesso per un sacro perforante di cui riappropriarsi per accedere a un’esistenza libera, liberata, autentica e consapevole (il set me free di Prospero). Anche Surfacing, come La Tempesta, è ambientato su un’isola disabitata.
Ma quali sono le isole che non sono state ancora scoperte al giorno d’oggi, si chiede Atwood?
La prigione. E il set me free di Prospero la sottintende, come abbiamo visto. Molte isole sono state usate come carceri ideali. Una per tutte, davvero aberrante: Santo Stefano, progettato secondo i dettami del Panopticon di Bentham per ottenere “il dominio della mente su un’altra mente”, con una struttura circolare ispirata ai gironi infernali danteschi. Isole come prigioni, quindi, e come manicomi. O, qualche volta, come modelli di carcere rieducativo, come a Gorgona o a Bastoy dove è possibile il recupero tramite il lavoro.
È questo il caso che sceglie Atwood per la sua riscrittura shakespeariana, Seme di Strega (Rizzoli, 2017), in cui il direttore del Makeshiweg Theatre Festival, l’estroso regista Felix Phillips, messo alla porta da Tony, suo viscido assistente, alla vigilia della debordante messa in scena della Tempesta a cui stava lavorando senza posa per sedare il dolore della perdita della figlia di tre anni, Miranda, si ritrova a far da insegnante di teatro ai detenuti della Casa circondariale Fletcher. Felix si installa in una stamberga lontana da tutti, al termine di una stradina sterrata (ed è una specie di tana/grotta scavata sul fianco di una collinetta), per continuare il suo dialogo con le ombre, o meglio, con l’ombra della sua Miranda, di cui conserva una foto mentre si dondola sull’altalena, che nel frattempo cresce, diventa adolescente, anche se solo nella sua fantasia, nel corso dei dodici anni in cui lui si condanna alla solitudine (se non fosse per quelle sue incursioni sul web per spiare i movimenti dei suoi nemici contro cui trama una vendetta ancora imprecisata).
L’ora della vendetta arriva quando Tony e il ministro che ne ha sostenuto l’ascesa, vengono in visita al penitenziario. Così Felix inscena la sua Tempesta in una girandola di colpi di scena, e trovate, tutti da seguire.
Ma quanto può essere crudele una vendetta? Ce ne può fornire un’idea la visione di The dressmaker, con la splendida Kate Winslet, o di Dogville di Lars Von Trier, entrambi girati in spazi claustrofobici (una cittadina circondata dal deserto o il palcoscenico di un teatro di posa). Quanto è piccolo lo spazio di una cella? E poi: anche la vendetta è una prigione? E tra i carcerati non vi è forse, primo tra tutti, Felix, privato anche della libertà di essere se stesso? (Ora si fa chiamare signor Duke per non essere riconosciuto). E ancora: di cosa è colpevole Felix?
Una delle tante prigioni è quella della mente, come succede in Shutter Island, film del 2010 diretto da Scorsese, in cui un agente federale, interpretato splendidamente da Di Caprio, approda su un’isola/carcere per indagare sulla sparizione di una donna, ma si scopre prigioniero lui stesso della sua mente e del senso di colpa, essendo in realtà un ospite del manicomio in cui è rinchiuso per l’omicidio della moglie, delitto che non si permette di ricordare.
Succede così anche a Felix che inscena la sua Tempesta per sottrarsi alla colpa di non aver soccorso Miranda, di essere arrivato troppo tardi, perché troppo impegnato, per impedirne la morte? Il dolore è una bufera che non si può dire.
“La vita è uno stato mentale” diceva Peter Sellers nel finale di Oltre il giardino: chi può dire se Chance il giardiniere fosse un demente o un saggio? (All’epoca, ricorda Atwood, Sellars era uno dei pochi canali attraverso cui aveva accesso alla cultura britannica, cioè tramite un “sovversivo programma radiofonico, The Goon Show“, a cui l’attore partecipava).
Quella della mente, dunque, può essere una prigione o anche un impero, L’impero della mente che partorisce storie e realtà, per citare il titolo italiano del film di Lynch, Inland Empire. E’ così anche per Peter Greenaway che in Prospero’s books fa recitare tutte le parti della storia a Prospero, intendendo che i personaggi sono tutti frutto della sua invenzione.
Come si fa ad uscirne? Il mezzo, la soluzione, è il teatro, sembrano concordare tutti. Ma sarà davvero una soluzione? E se sì, non è altamente rischiosa?
La fantasia è comunque indispensabile al teatro, come recita il prologo dell’Enrico V :
“Sopperite alle nostre deficienze con le risorse della vostra mente”.
Una magia buona, dunque, che sottende un atto di fede e uno sforzo creativo della fantasia: quello che compie Atwood nella sua scrittura, una scrittura che muta l’isola in carcere e il carcere in teatro secondo il modello del play within the play e che trasforma Calibano in un rapper, Miranda in una ex ginnasta piuttosto sboccata, Ariel in un hacker addetto agli effetti speciali.
Seme di strega parte dalla descrizione di un mondo dello spettacolo assolutamente spietato in cui per primeggiare è consentito qualsiasi mezzo (come in Eva contro Eva, film del 1950 di Joseph L. Mankiewicz) per andare a svelare cosa si nasconde dietro l’apparenza dell’ordinato mondo benpensante (un lavoro che ha fatto magistralmente Lynch in Twin Peaks o in Velluto blu), un mondo che non è più vero della sue proiezioni.
Ma Seme di strega è anche una denuncia della corruzione politica che Atwood mette in scena attraverso le canzoni del suo rapper/Calibano.
In questo modo, Atwood prende posizione, e le sue sono sempre osservazioni molto lucide, perché, al di là di tutto, Prospero c’entra molto con la riflessione sul mestiere e il ruolo dello scrittore, riflessione che Atwood svolge in Negotiating with the Dead (Negoziando con le ombre, Ponte alle Grazie, 2002) dove si chiede quale sia la responsabilità morale e sociale dello Scrittore (è il capitolo il cui titolo recita: Tentazione. Prospero, il Mago di Oz, Mephisto&Co):
“Quanto dovrebbe dunque sentirsi colpevole uno scrittore, a causa della propria arte?”, si domanda pensando all’impegno del ruolo pubblico. L’artista, e il mago, hanno sempre a che fare con una dose di mistificazione e con una presa di posizione, un punto di vista. Le risposte alle domande di Atwood non sono semplici e probabilmente non spettano allo scrittore ma al lettore, dice lei. E citando le parole di Alice Munro ricorda:
“Fa’ quel che credi e sopportane le conseguenze”.
In Seme di strega, Atwood esplora i meccanismi della colpevolezza, della vendetta e della prigionia, ne declina i percorsi, ne mostra le varianti perché non si sottrae mai all’indagine dei nodi e delle ferite dell’essere umano, alle sue possibilità di essere liberato dalle tirannie della mente e del giudizio, come non manca di dire la sua sui casi di attualità, quelli scaturiti dallo scandalo Weinstein, e, nello specifico, sul caso Galloway. È di un mese fa la polemica lanciata dalle colonne di The Globe and Mail, con il pezzo intitolato Am I a bad feminist?, dove ammonisce di non condannare una persona per la sola presunzione di colpevolezza.
“Se il sistema legale viene aggirato perché considerato inefficiente, cosa prenderà il suo posto? Chi saranno i nuovi mediatori di potere? Non le cattive femministe come me”, dice. “In tempi di estremi, gli estremisti vincono. La loro ideologia diventa religione, chiunque non concordi con le loro opinioni viene visto come apostata, eretico o traditore, e i moderati nel mezzo vengono annientati. Gli scrittori di narrativa sono particolarmente sospetti perché scrivono di esseri umani e le persone sono moralmente ambigue. Lo scopo dell’ideologia è eliminare l’ambiguità”. Il pensiero unico e acritico. (qui l’articolo completo)
Spiace che le femministe del #metoo, o la frangia più estremista, non capiscano che il discorso di una scrittrice poco ha a che fare con le linee di partito (preso) – Atwood è stata assunta come icona dal movimento femminista ma si è spesa più esplicitamente per l’ambiente e i diritti degli autori e ama definire la sua opera umanista più che femminista, anche se ha sempre tratteggiato ritratti femminili incisivi, ad esempio in Fantasie di stupro e altri racconti– perché il discorso di una scrittrice come lei molto di più ha a che fare con il ragionamento (sempre acuto e affilato) di una mente libera che, di volta in volta, soppesa, rimodula e ribatte. Set me free.