“Hope: A Tragedy” by Shalom Auslander
Anni fa uscì una bellissima antologia per la Norton sulla letteratura ebreo-americana – definizione spesso rifiutata dagli stessi autori che ne dovrebbero essere pietre miliari. L’elenco di scrittori compresi era sorprendente, e andava dal diario di Mordecai Sheftall (1735-1797) alle lettere di Rebecca Gratz (1781-1869), a Emma Lazarus (1849-1887), poetessa autrice di “The New Colossus”, i cui versi sono impressi sotto la Statua della Liberta, fino ad arrivare a tutti gli autori figli della grande migrazione del 1881, come Abraham Cahan, David Edelshtadt, Sholem Asch e le meravigliose Mary Antin e Anzia Yezierska. Una seconda ondata fu quella di Gertrude Stein, Michael Gold, Jacob Glatstein, Nathanael West, Henry Roth, Leo rosten, Daniel Fuchs. Poi arrivarono Irwin Shaw e Delmore Schwartz e Arthur Miller. Tutti autori con una personalità originale e molto diversi uno dall’altro, ma con delle matrici che li accomunavano. Poi ci fu il periodo d’oro: Tillie Olsen, Bernard Malamud, Saul Bellow, Alfred Kazin, Irving Howe, seguiti da Norman Mailer, Allen Ginsberg, Philip Levince, Cynthia Ozick, Elie Wiesel e – forse il più famoso di tutti – Philip Roth. Da allora la definizione di ebreo-americano e di una “identità ebreo-americana” divenne, in una sorta di riflusso, anche un argomento centrale nell’opera di questi scrittori. Molti accentuarono il lato ebraico (Chaim Potock, Adrienne Rich), molti si mischiarono a una più generale identità americana (lo stesso Philip Roth degli ultimi romanzi, Harold Bloom, E.L. Doctorow, Max Apple).
Tutta questa lunga premessa per dire in che contesto si inserisce ogni nuovo autore appartenente a questa tradizione, che sembra rinnovarsi ciclicamente.
Shalom Auslander – già noto in Italia per il memoir “Il lamento del prepuzio” e per la raccolta di racconti “A Dio spiacendo”, è cresciuto nel quartiere ebreo ortodosso di Monsey, a New York, dove l’autore racconta di essere stato “tirato su come un vitello”. Oggi vive nel New Jersey, cioè le stesse zone di Philip Roth, ed è ormai una presenza fissa sulle pagine del New York Times, dove con “tempi da commedia e il cinismo di un veterano”, come è stato scritto, dà libero sfogo a una “ferocità e intelligenza che hanno la freschezza di un appassionato filosofo”. Il suo stile è stato paragonato a quello di un altro umorista come David Sedaris. Certamente è uno di quegli autori che ha messo il proprio essere ebreo, con tutte le problematiche del caso, al centro della propria opera – utilizzando un arma tipica della tradizione ebreo-americana (da Cahan a Woody Allen) che è lo humour, nel suo caso spesso caustico e quasi da avanspettacolo alla Lenny Bruce (sul quale converrebbe rispolverare il bellissimo film interpretato da Dustin Hoffman).
“Hope” è il primo romanzo di Auslander e parla proprio del peso di questo passato, di questi nomi, di queste glorie e della tragedia che accompagna il popolo ebraico e che infestano il presente. Al centro del racconto c’è Solomon Kugel, che si trasferisce nel paesino di Stockton, a New York, proprio perché lì non c’è niente: nessuno è nato lì, nessuno è morto lì, niente di storicamente importante vi è mai successo. È il posto giusto per ricominciare, per una “fresh start”. Per crescere la propria famiglia a dispetto di un mondo che sembra impazzito. Solo che le cose – soprattutto se ci troviamo in mezzo a una black comedy come questa – non sempre vanno come si vuole. La madre di Solomon è malata, ma non vuole saperne di morire, e continua a parlare dei campi di concentramento nazista, convinta di aver vissuto quell’esperienza. Un pazzo va in giro a bruciare le case coloniche come quella in cui si è trasferito Solomon. E in soffitta…
In soffitta c’è Anna Frank, cioè uno dei simboli della sofferenza dell’Olocausto, che tutti pensano morta e che invece è lì, in casa di Solomon. L’idea di rimettere in gioco Anna Frank non è nuova. Era già successo a Philip Roth con “Lo scrittore fantasma” e, di recente, anche a un altro nuovo astro della letteratura jewish-american, cioè Nathan Englander con l’imminente “What We Talk About When We Talk About Anna Frank”. Ma nessuno lo ha mai fatto con la stessa leggerezza, spirito dissacrante e libertà di Auslander. Come scritto da Janet Maslin sulle pagine del NYT, qui c’è un po’ di Heller e un po’ di Allen. “Non esiste mai un buon momento per incontrare Anna Frank nella propria soffitta,” scrive Auslander “ma questo era un momento particolarmente sbagliato.” Il libro è pieno di queste frasi fulminanti, quasi come se fosse pensato per essere letto ad alta voce per far divertire un pubblico in carne e ossa – come dopo una cinquantina di pagine, quando Auslander scrive “Le ultime parole di Pascal furono ‘Dio non mi abbandonerà’ Un attimo dopo, Dio lo ha fatto”. Ma nel contempo “Hope” è anche una riflessione sui capricci di Dio e su come il passato finisca per corrompere il presente e per essere eccessivamente mitizzato, su come la soluzione migliore di tutte continui a essere vivere il proprio tempo.
“Odditorium” by Melissa Pritchard
Una segnalazione più breve per questo libro di racconti – otto per la precisione – che si presentano fin dal titolo come una raccolta di stranezze. Le storie spaziano in tutti generi, dall’horror al western al thriller, con una fantasia quasi barocca che va a toccare personaggi famosi (Buffalo Bill) o epoche e episodi storici realmente esistiti. “Ho sempre amato la storia,” dice l’autrice (che al college ha studiato storia, rimanendone – come dice lei stessa – insoddisfatta) “e nel contempo ne sono sempre stata diffidente. Chi decide che cosa deve essere ricordato e salvato, registrato e impresso nella memoria collettiva? Che cos’altro è accaduto, che cosa è rimasto fuori dalle pagine dei libri di storia, e perché?” Con questa curiosità per l’anomalia, lo scarto, il dietro le quinte dei grandi avvenimenti, Melissa Pritchard costruisce racconti fatti di meraviglia e orrore, di pazzi e di sognatori e di freak – raccontati, come ben descritto da Carolyn Kellog, “con un linguaggio evocativo che parla delle viscere e dei fiori, di poesia e di violenza”.
Mellissa Pritchard del resto è già una mastra per quanto riguarda la narrazione breve – campo in cui ha vinto numerosi premi. Nata in California è già autrice, oltre che di tre romanzi, di quattro raccolte di racconti e di una biografia. Ha vinto il Flannery O’Connor Award e l’O. Henry Prize. Rick Moody ha definito la sua scrittura saggia ed elegante, coi toni di una “commedia accattivante”. “Odditorium” – pur con tutti i suoi eccessi a volte barocchi – è certamente un elogio della stranezza e della forma racconto.