Vi sono due uomini al cimitero di Gatley, a sud di Manchester, impegnati in compiti del cuore. Uno è Strulovitch, mecenate ebreo e collezionista di opere d’arte; l’altro Shylock, non l’ombra, il fantasma shakespeariano, ma un uomo in carne e ossa, così lo vuole Jacobson per garantirgli la possibilità di un confronto serrato con l’altro ebreo che ne declina il destino e le tematiche. Attraverso Shylock avanza anche la millenaria storia ebraica, con tutto l’armamentario del pensiero che disseziona e di cui sono da sempre accusati: del conflitto con la natura su cui hanno tracciato una riga sopra (come argomenta Hegel in Lo Spirito del Cristianesimo e il suo destino) per distinguersi dal sottomondo delle scimmie e scegliere l’adesione a un Dio geloso e possessivo che è principio, è parola, parola votata non alla sensualità delle cose, al loro aspetto visibile- un aspetto che coltivano solo per la sopravvivenza (la ricchezza come mezzo per stare nel mondo, non come godimento dello stesso)-, una parola che è normativa e permette l’individuazione. Shylock è l’uomo della parola ed è uomo di parola, fedele all’impegno preso (il voto di matrimonio che lo lega alla moglie defunta che va a trovare ogni mattina per continuare con lei un dialogo ininterrotto). La grande intuizione di Jacobson sta proprio nello scovare il punto esatto in cui il testo shakespeariano fa trapelare l’umanità del personaggio, il punto, cioè, in cui nomina la moglie per la prima e unica volta.
Vedo solo ciò che sono in grado di vedere? si chiede Strulovitch. In questo caso è meglio che io lasci che le cose vengano a me, senza forzarne il corso. Ed è una riflessione a più livelli sugli incontri che si possono fare, come uomini, come ebrei, e come scrittori: Strulovitch incontra Shylock e ne diventa, in qualche modo, amico; l’ebreo incontra la sua storia e le sue contraddizioni; Jacobson incontra il personaggio del suo libro (mandato fino a lui da Shakespeare perché continui a parlare e si riprenda la scena da cui è stato estromesso? E Jacobson gli regala un V Atto, permettendogli il sogno di un finale grandioso degno del Malvolio della Dodicesima Notte).
Ma quali sono i compiti del cuore in cui sono impegnati? Di Shylock si è detto. Strulovitc, invece, va a trovare la madre- la moglie è ancora viva, anche se più morta che viva, essendo ridotta a letto in stato vegetativo.
Ma ve ne è un altro: quello di individuare la collocazione esatta di quella libbra di carne che travalica il tempo e che reclama ancora di essere presa. Non è al cuore di Antonio che Shylock ambiva, spiega il personaggio del romanzo, ma al pene: un attacco alle sue parti intime l’avrebbe, dopotutto, rimesso al suo posto, un uomo di elevate pretese e di meriti infimi. Gli ho permesso di uscire dalla farsa. Shylock si riferisce alla circoncisione perché l’inimicizia tra giudei e gentili, afferma, è iniziata proprio con la pratica che sancisce il patto di fedeltà a Dio e che permette all’uomo di non scambiare il mondo per un idillio nei primi giorni della sua vita; e allora il mohel protegge il neonato dall’inganno della natura e dall’ignoranza che non permette di capire che la vita è un obbligo, oltre che un dono. È il filo che dipana Jacobson, interrogandosi sulla circoncisione del cuore paolina, e facendo interrogare Strulovich, imponendogli di chiederne la prova a D’Anton, controfigura di quell’Antonio shakespeariano che si immola per l’amico, ed è, qui, un collezionista d’arte omosessuale votato alla tristezza; un uomo che concepisce la vita come sublime tormento dei sentimenti (una figura in qualche modo simile, Jacobson l’aveva già tratteggiata in Un amore perfetto) e si percepisce nelle pieghe dei doni che elargisce, in quello spreco che ne residua: un dandy, in fin dei conti, che vive, appunto, in un mondo da farsa (quello del Triangolo d’Oro, un Cheshire ricco e votato all’apparenza- e lo sfavillio dell’oro non è niente e, soprattutto, non serve a riempirsi la pancia, come insegna la vicenda di Mida); una farsa da cui bisogna uscire dichiarando guerra al tempo, dice Jacobson nelle prime righe del romanzo; una farsa da cui ci si può salvare incarnando la propria storia, scontrandosi con la realtà e subendone le conseguenze. Dichiarare guerra al tempo non è solo accettare le bizze del clima, quello del nord dell’Inghilterra, dove l’asprezza della luce fa vivere a nervi scoperti, significa anche concepire la freccia del tempo come una direzione diacronica che permetta ai personaggi di andare e venire dal passato al presente, come fa Shylock che, nonostante la sua storia sia finita dove è finita, può tornare e dialogare con Strulovitch, visto che gli effetti delle sue azioni continuano a riverberarsi sull’oggi di un altro ebreo, perché molto tempo fa è adesso, e un altro luogo è qui. Come succede nelle rivisitazioni teatrali, quella della regista Karin Coonrod, ad esempio, che ha messo in scena il suo The Merchant of Venice al ghetto, con la Compagnia dei Colombari (nel cast Reginald Cathey che abbiamo visto in House of Cards e la partecipazione dell’attrice vicentina Francesca Sarah Toich), affidando il ruolo di Shylock a cinque attori perché le problematiche che pone il personaggio sono tali che non si possono far convivere in un solo corpo. E non è in questione se Shylock sia victim or villain, ma che sia davvero un uomo che fa risuonare fin troppi interrogativi. Lo stesso Jacobson ha girato un documentario per la BBC intitolato The Shylock’s Ghost.
D’Anton diventa, quindi, il consigliere di una Porzia trasformata in meteorina scandinava, viziata e rimpolpata di silicone, Anna Livia Plurabelle Cleopatra Una Cosa Bella È Una Gioia Per Sempre Christine, proprietaria di un ristorante, con annesso reality show, chiamato Utopia, che gestisce frivolamente senza dar peso all’assurdo legato paterno, e che infine incontra il suo Bassanio, o meglio, il suo Barney, scultoreo e sensuale amico di D’Anton, attraente come un oggetto da possedere ma sprovvisto di cervello. Non è per lui che si sacrifica D’Anton- e qui sta il suo rammarico-, ma per un altro protetto, un calciatore dall’aria ebete di cui si innamora Beatrice, la figlia di Strulovitch. I fili della storia sono tirati e la trappola è pronta a scattare, ma le riflessioni a cui porta si nascondono al di sotto dello stile estroso e salace di Jacobson.
Lamentandosi del fatto che i gentili si sentano sempre in obbligo di raccontare delle barzellette in presenza di un ebreo, Jacobson riscrive la sua barzelletta sul mondo dei cristiani (e questo rientra perfettamente nello stile shakespeariano), descrivendo una Belmonte che ha i tratti della burla, anche se potrebbe assomigliare alla ferocia de I Melrose di St Aubyn- e non è un mondo tanto diverso dal nostro, se ci si pensa bene (tolti, ovviamente, i tratti più caricaturali), un mondo che ci tocca da vicino, e che tocca l’ebreo che ci ricama sopra con ironia perché non diventi troppo pungente: Mi affretto a ridere di tutto e di tutti, per la paura di essere costretto a piangerne, dice Beaumarchais.
Ma sono le riflessioni di un padre che tengono banco, le riflessioni di un uomo che non è solo ebreo: è soprattutto padre, un padre condannato, non ad amare male, ma troppo, scambiando forse la figlia per una moglie; una figlia che desidera solo mettere una distanza tra sé e l’universo nevrotico di quell’uomo che la vorrebbe sempre come alla sua nascita: una messaggera di Dio, la promessa del suo futuro; perché chi ben chiude, ben ritrova, pensava Shylock. La storia d’amore tormentoso e tormentato è, qui, quella tra una figlia e un padre: la storia del loro contrapporsi, dell’ira simultanea che li lega, come simultanea è la paura di quell’ira, e si trasforma nel contratto che li vincola, e li avvince, e che mette in moto un meccanismo di ribaltamento in cui l’odio è parte di un affetto che è anche patto scellerato tra vittima e carnefice. Dov’è mio padre? si chiede Beatrice in fuga con lo scimunito calciatore. In una notte come questa (ed è il riferimento alla shakespeariana notte mitica degli innamorati), Beatrice si mette a riflettere sulle sevizie del padre, sul suo starle sempre col fiato sul collo: Come poteva qualsiasi altra tragedia nella sua vita competere con tutto ciò? Come poteva Gratan avvincerla nella misura in cui vi era riuscito suo padre? […] Beatrice non era più capace di innamorarsi di nessun altro.
È lo stesso contraltare che oppone ebrei e cristiani, per cui, se c’è risentimento, vi è anche desiderio di possesso (era già successo a Treslove ne L’enigma di Finkler dello stesso Jacobson), e per cui D’Anton si chiede se il suo consegnarsi nelle mani di Strulovitch non sia, in realtà, lo stesso bisogno di tortura autoinflitta della vittima nei riguardi del suo torturatore: amo ciò che odio? si chiede; amo la graticola che mi arrostisce (e rinvia al martirio di San Lorenzo, quello del Tintoretto)? Era questo che gli era sempre mancato nella vita: una perdita tangibile in grado di giustificare quella sensazione fino ad allora infondata di perdita?, si era già chiesto il finkleriano Treslove.
Ed è ancora uno specchio quello che Shylock mette davanti al suo nemico quando dice che non è in discussione chi sia lui, ma chi siano loro, i cristiani.
Ma, come ne Il mercante di Venezia, anche qui vi è spazio per la clemenza, una clemenza che fa a pezzi la storia per ricomporla in un lieto fine, anche se, in qualche modo, minaccioso; una clemenza che è quella stessa del narratore; una clemenza (mercy in inglese o rachmones in ebraico) che passa attraverso la mediazione dell’arte (non della musica, come in Shakespeare), perché entrambi i contendenti sono collezionisti; un’arte che fa emergere la luce dal fondo dell’oscurità, come in Rembrandt, come illuminazione del significato, un modo per distinguere tra l’oscurità mondana delle cose e la chiarezza derivata dalla comprensione e dal discernimento; un’arte che veicola, in maniera ulteriore, i contenuti della vicenda umana e che Shylock non può accettare perché non è da ebrei amare, simultaneamente, l’arte e la parola, ma questo non ne preclude il godimento, e qui potrebbe essere il germe della conciliazione, della possibilità del contatto, non solo in forma di collisione; un’arte, infine, che permette una visione paradossale e straniante, ma subitanea come una folgorazione, in cui si capisce che ad essere eterno è solo il trascorrere del tempo: non in quanto sottrazione, ma in quanto impermanenza che, nella sua sostanza volatile, contiene il concetto di eternità, declinata come mistero. Lo dice bene Tony, nel finale di Tutto quello che è un uomo di David Szalay, che continua: Nell’eternità del tempo si cela solo un mistero- l’idea che contenga qualcosa che non conosceremo né comprenderemo mai. Uno spazio vuoto, inconoscibile. Come, a sant’Apollinare Nuovo, quel mosaico con le tende che si aprono sul niente, sulla distesa di semplici tessere dorate– che è poi il secretum del tempio ebraico di cui parla Hegel, che custodisce, appunto, il vuoto.
Howard Jacobson, Il mio nome è Shylock, Rizzoli, 2016, traduzione di Laura Pignatti.