Non c’era tempo, e l’andare di posto in posto lì disegnava fermo e distante. Erano cose imparate a sentimento, quasi un elogio dell’indifferenza e per educato rispetto. Di quei delitti, noi che picciotti lo eravamo per sudore di nascita, ne legavamo a memoria non tanto il crimine, o la minchioneria, ma l’abitudine al destino.
Ci soverchiava il tributo alla pazienza… quel deposito inavvicinabile di novità che “ricominciava” la frontiera alle spalle del paese. Alcuni, con pedante insofferenza, la chiamavano arroganza, altri esaltandola, ma per assenza di ogni sanguigno paragone, la definivano “isolitudine”.
Sfrontati com’eravamo, ritenevamo “l’obbligo al silenzio” l’unico arnese che potesse svuotare il torbido dai serbatoi dell’invidia. Il resto, che stava a chiacchiera, dilatava supponente. L’ostentata superiorità rifletteva, invece, nel prete, nel sindaco e nei “carrabbinieri” nostrani e solo per pareggiare le cose che, per sofferta inferiorità, qualche povero minchione del continente scriveva tra i mattoni del proprio inutile giornale. Ci bastava il mare, a noi. Quel mostrarsi alludente e simile soltanto al veleno delle femmine locali. I nostri interessi, finita scuola o il risicare al frantoio, non comprendevano l’ignoto: sarebbe bastato attraversare la ferrovia, se solo avessimo voluto afferrare le intenzioni di un qualche forestiero.
Ma come per il pane schietto, l’esperienza che adescava la nostra ammirazione era tutta là: nella santità di quell’incauto, salmastro stupore. Ci legavamo semmai alle omertose resistenze dei vecchi, e non per imparare l’aceto del rimorso, ma per pigliare il meglio dal più laborioso tra i commerci: l’eleganza del disprezzo. Quel posto, nato da chissà quale sulfureo orgasmo, elevava le intenzioni dell’immutabile a plausibile sostanza, e talmente tanto, che solo ai politicanti delinquenti veniva concessa l’allusione alla redenzione. Per gli altri, picciotti come a me, fatti di furbanteria africana e di baldanza aragonese, l’inferno era da scontare senza i privilegi della promessa vescovile. Insomma, l’oltre era solo un posto liquido e poco necessario. E se erano i serpi ad averla vinta per una stagione, alla fine, il niente tornava al caos e al senso immotivato del presente. Tutto, appresso e sempre. Come la caloria che faceva miraggi irrisolti, misurandosi tra il tentativo dei pali elettrici, di paese in paese, e l’errore d’immaginarne la continuità.
Come si diceva dalle parti mie: ovunque e lontano. Erano cose come il ferro. Senza anima, forse. Ma immortali, e più della sorte. Alla stazione, ad esempio, il quadrante a parete, fermo, ma con decenza, diceva di ingovernabili grandezze e tutto finiva con l’essere pari a quelle immobili distanze tra una lancetta e l’altra. Erano altezze indefinibili, impossibili da tradurre. Orgogliose. Siciliane. Altrove, con “quelle”, non c’erano somiglianze e lì, nel posto nostro, a scannarci non era il rimpianto, ma la chimica del sangue. Niente d’infinito: quel codice sottovoce, semplicemente, spalancando al caos, s’attribuiva, con i gechi, il primato sulla terra onnipotente. Tutto, incluso il futuro, soccombeva al pietrame del nostro essere isola e gli imbecilli, più degli avidi, con la retorica dei coltelli finivano con l’essere più peggio delle loro promesse prostitute. Noi, che abitavamo le terre dello stupore, sapevamo del tentativo di quella certa briganteria. Le loro eccedenze, tra le contrade, li facevano ciclopi e se le loro minchionerie erano tali per potenza a quelle dei signori del continente, loro, gli imbecilli, finivano con l’essere il peggio tra gli sterpi da dare al fuoco per fare lo stallatico. Di tanto in tanto, i vecchi li chiamavano per il nome loro: quaquaraqua e ancor più peggio: i malaminchiata.
Ricominciava così agosto, con le cose che raccontavano piano, e noi, con quel senso di eresia tutto isolano, riprendevamo a volare. Dalla ferrovia agli “sbalanchi” la nostra frenesia correva in salita verso il salto, e con l’intendere del tufo di fianco. C’era tutto in quel risalire: la vigoria del confine, il disordine del dubbio, la cannibale bellezza, l’abbandono al sacrificio, l’esercizio all’attesa. Insomma, ogni picciotto desiderava. Eravamo la conseguenza della roccia, il frastuono “calligno” del ripetersi, e se al mondo ci pigliava di capire, a noi, così inclini all’orgoglio, risultava sufficiente adattare lo spirito a quel genere di assoluto: l’incomprensibile. O a chissà quale altro Dio. Dispari era solo il caldo. Avido. Immorale, quasi. C’importava solo che il posto restasse intatto alle atrocità di quelle estranee voglie di cambiare. Lentamente, sul tentare di quegli irrimediabili slanci, tutto risaltava agli occhi di una sola legge, e lì, dal nostro caos fermo, permettevano solo agli angeli di tentare l’azzardo alla perfezione. A noi bastava quello: essere e restare siciliani.
Vito Benicio Zingales