E’ in libreria, per Giunti Editore, Volver il nuovo romanzo di Silena Santoni, insegnante di lettere e scrittrice fiorentina. Suoi i romanzi Una ragazza affidabile (Giunti 2018) e Piccola città (Giunti 2020) che le hanno portato successo di critica e di pubblico. Se il titolo riporta a quello di un film di Pedro Almodovar, del 2006, Volver – Tornare, la trama se ne discosta, sebbene il piglio sia sempre intenso e penetrante. Sei personaggi messi in scena sul palco della Storia feroce di una Buenos Aires in dittatura. Come un incubo che si ripete, da cui provare ad uscirne, ma che ritorna, come “il non passato” in ogni personaggio. Si dipana una narrazione corale, melodica, drammatica a passo di tango sulla capitale argentina “frenetica e sonnolenta, squallida e maestosa, dolente e smemorata, indifferente a chi va e a chi resta”. Amore e orrore che squarciano facce e facciate, cercano una giustificazione, quasi senza ipocrisia, e nel mezzo “aguzzando la vista” delusioni palpabili, avvenimenti contraddittori, sospetti insospettabili di un popolo, quello argentino, che “in questa tragica epopea non ha avuto eroi di cui tramandare il ricordo, soltanto vittime; quando non c’è riscatto resta solo la rimozione e, non fosse per queste vecchie vestali col fazzoletto bianco, nessuno oggi conserverebbe la memoria.”
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Nella stanza di chi scompare c’è sempre qualcosa lasciato in sospeso, qualcosa che alimenta la speranza di un ritorno imminente. Nella stanza di Martina c’erano Il gabbiano Jonathan Livingston, sul comodino, con l’orecchio a pagina trentadue, un bicchiere di aranciata pieno a metà sulla scrivania e una camicetta gettata sul letto.
Franca entrava ogni giorno in camera della figlia per assicurarsi che nessuna di queste eliquie fosse stata toccata. Apriva la finestra per arieggiare, spolverava, passava uno straccio bagnato sul pavimento, poi si sedeva sul letto con le mani in grembo e lo sguardo perso nel vuoto a pensare a quando Martina sarebbe tornata per terminare la lettura del libro e bere l’aranciata rimasta. La notte lasciava la porta della camera aperta e la luce accesa sul comodino. Mille volte aveva ripercorso quelle ultime ore. Da due mesi il caldo torrido aveva ribaltato i ritmi di vita. Di giorno strade deserte e persiane serrate, solo al calare del sole i porteños si rianimavano e mettevano il naso fuori. Il due gennaio Martina era tornata a casa in un bagno
di sudore e con due borse scure sotto gli occhi. A pranzo quasi non aveva toccato cibo.
«Non ti senti bene?» Le aveva chiesto.
«Sono solo stanca. Lo sai, ho tanto da studiare.»
«Perché non vai a letto a riposarti un po’?»
Lei aveva annuito e si era trascinata in camera.
Alle cinque Franca era andata a svegliarla con un bicchiere di aranciata. Dormiva rannicchiata su un fianco, i capelli biondi allargati sul cuscino come un’aureola, il volto rilassato. Si era tranquillizzata, aveva deciso di cucinare le lasagne per farle tornare l’appetito. Alle sette Martina le aveva gridato dal corridoio Mamma, esco con un’amica, lei non aveva alzato gli occhi dai fornelli, le aveva solo risposto: «Ceniamo alle dieci». Erano state quelle le ultime parole. Non era corsa alla porta d’ingresso per sincerarsi che stesse bene, non l’aveva stretta a sé, aveva continuato a mescolare quella stupida besciamella e le aveva detto Ceniamo alle dieci. Cosa indossava l’ultima volta che era uscita di casa? Forse un paio di jeans e una maglietta. Aveva rovistato come un ossesso nel disordine dell’armadio e dei cassetti di sua
figlia, ma non era riuscita a individuare esattamente cosa mancasse. Il nastro si srotolava e si riavvolgeva all’infinito: Martina in jeans e maglietta (forse) esce dalla sua camera, attraversa
il corridoio fino alla porta d’ingresso, grida Mamma, esco con un’amica; Martina percorre il corridoio camminando all’indietro, è di nuovo sulla soglia della sua camera, sparisce dietro, la porta si chiude. Franca aveva contato i passi infinite volte, avanti e indietro lungo il corridoio, nutrendosi di quegli ultimi, preziosi istanti prima dello iato. Alle dieci lei e Antonio erano seduti al tavolo apparecchiato.
«Martina dov’è?» aveva chiesto suo marito.
«Starà per arrivare.»