Il nome dell’autrice, perché di autrice si tratta, non compare sulla copertina di Dancing Paradiso. Quasi ci fosse una ritrosia nell’esporsi, una pulsione a mettersi subito da parte rispetto al proprio lavoro. Un desiderio di rimanere dietro la macchina fotografica, come occhio che cattura la realtà, lasciando a essa il compito di dichiararsi o forse, in un atto di giusta arroganza artistica, per diventare ogni volto, ogni espressione, ogni movimento fermato nelle immagini. Quindi diventare moltitudine, essere nessuno per essere tutti. Quindi, nuovamente, per non mostrarsi.
È questo che la quarantacinquenne Silvia Diamanti sembra dichiarare non siglando da subito la proprietà artistica di un libro di fotografie (il suo primo libro) in rigoroso bianco e nero, presentandosi solo sul dorso e poi nel frontespizio, rifiutando di apparire in una immagine a corredo e in una nota biografica.
Le quarantotto foto (compresa quella in copertina) vengono perciò lasciate coraggiosamente da sole, precedute unicamente da una dedica al padre e da un esergo quasi minaccioso, tratto dal bergmaniano Settimo sigillo.
Mettendo da parte le possibili interpretazioni di questo gioco a sparire (ma fotografia come scrittura sono arti dove l’autore è quasi per statuto un fantasma), scorrendo le pagine ci si trova immersi nei risultati di un progetto portato avanti dal 2017 al 2019, fra balere e scuole di ballo romagnole. Loro sono la materia prima di questa galleria che incuriosisce.
Ripresi in inquadrature formato 6×6, troviamo i volti – ma anche i corpi – di ballerini di tutte le età, poco altro. Un catalogo di espressioni e azioni che dichiarano quasi sempre la tensione per lo sforzo appena compiuto, che si sta compiendo o che è da compiere sulla pista da ballo. Un elemento sempre percepibile, questo. Anche se a volte si sarebbe voluto qualcosa in più, qualcosa che dichiarasse meglio il tutto. Comunque, anche nelle foto che tendono a essere più posate, più relativamente fredde, la tensione è elemento principe.
Stessa cosa si può dire per gli scatti “rubati”. Eccoli nella ragazzina che da seduta abbraccia una sbarra, ma anche nella giovane ballerina posta in apertura di galleria col suo guardare fuori quadro, quasi indicando direzione e desiderio di una possibile fuga. Intuito e rapidità nel cogliere il momento qui giocano il destino della foto, il suo possibile valore.
Un’altra caratteristica delle foto di Dancing Paradiso – intuizione o preterintenzione che sia – sta nello sforzo costante di non aggiungere più del dovuto a quanto viene catturato dallo scatto (che è opera di selezione, certo). Naturalmente è così che deve apparire agli occhi di chi guarda. A fare diversamente, ogni singola immagine penderebbe pericolosamente verso la retorica, cosa che ogni tanto Diamanti sfiora.
Per quanto invece riguarda le influenze che a tutto questo portano, sicuramente gioca un grande ruolo il lavoro di Diane Arbus. Ovvio, poteva essere altrimenti, ma l’ascendente della fotografa newyorkese è pervasivo. Visibilissimo il rimando ad alcuni suoi scatti, ad alcuni elementi che ne formano lo stile. E non senza lo sforzo, più inconscio che reale, di distaccarsene. Resta però lo stigma, indubbiamente. Ampiamente rintracciabile anche nell’uso del flash “sparato” sui volti.
Ma questa presenza ci permette di intuire un’altra frequentazione: Lisette Model. Ovvero la maestra della Arbus.
Di una simile scultrice di espressioni umane ci sarebbe da parlare, e tanto. Assoluta è la sua capacità di cogliere il grottesco nelle persone che immortala. Stessa cosa, ma estremamente attenuata perché posta con uno sguardo più “affettuoso”, troviamo nei ritratti contenuti in Dancing Paradiso. Infatti sembra trasparire spesso un misto di tenerezza e ironia, certamente prodotto da un occhio non miope, non pigro.
Niente male per una fotografa che ha iniziato a lavorare a questo progetto, praticamente nel momento in cui ha messo mano alla macchina fotografica. Come se il mezzo fosse venuto dopo la pianificazione del cosa fare, dopo l’idea. Poi, aver avuto durante il procedere del lavoro un maestro come Guido Guidi, aiuta non poco.
È proprio l’idea che sostiene e lega le immagini di Dancing Paradiso ad attirare fin da subito. Non tanto la sua originalità, ma la quasi ostinazione a perseguirla, sostenuta certamente da una forte curiosità verso i corpi e i volti, da una empatia per chi si ha davanti all’obiettivo. Questo mette in campo la fotografa bolognese, lavorando su un bianco e nero rigoroso quanto ben studiato, capace di farsi racconto.
Già, nel campo della fotografia si parla spesso di progetto, ma nella realtà ogni fotografo compone, riversando nelle pagine dei suoi libri, un racconto con tanto di inizio, svolgimento e fine.
Interpretabile in questa direzione è allora la bella (non nuova, ma bella) idea di chiusa che Diamanti propone. Una sorta di fadeaway offerto dalle ultime due foto. Non che nel libro manchi un continuo suggerire il movimento (lo si cita già in copertina), ma nell’uscire dal racconto lo si porta al suo culmine. Proprio l’ultimo scatto pare voler giocare proprio con il concetto di moto, negando la staticità quasi assoluta dei due ballerini, annegandoli nella sovrabbondanza di luce, quasi cancellandoli. Divengono figure indistinte, estranee a qualsiasi forma di dolore o ricordo.
Ma quanto vediamo resta la parte, diciamo, “facile” di tutto il lavoro che Diamanti ha costruito muovendosi per gare e scuole di ballo romagnole. È il risultato finale o uno dei possibili risultati finali, comunque quello che è più consono a raccontare la sua idea di fotografia, di umanità e, forse, di se stessa.
Sergio Rotino
Recensione al libro Dancing Paradiso di Silvia Diamanti, Editrice Quinlan 2021, pagg. 72, € 28,00