Nella cittadella del cinema che si attrezza ogni anno sull’isola vacanziera dal gusto aristocratico e retrò del Lido veneziano immortalata per sempre da Thomas Mann e Luchino Visconti — che nello spazio di pochi kilometri quadrati (non più di tre) ha ospitato per 11 giorni 1-11 settembre: 9000 addetti ai lavori, svariate altre migliaia di semplici spettatori estemporanei, tutti racchiusi in: tre grandi sale (di cui una enorme), tre medie sale, e tre sale minuscole… ho concentrato la visione di 54 lungometraggi (di cui 10 documentari, e un film d’animazione – l’unico presente: Inu-Oh di Yuasa Masaaki, coproduzione cinogiapponese, sezione Orizzonti, visionario, tradizionale e disturbante), 22 cortometraggi, una serie tv in cinque puntate Scenes from a Marriage di Hagai Levi ricalcata sull’originale bergmaniano e prodotta per HBO dal figlio del regista svedese Daniel – della durata complessiva di circa 5 ore, e 4 progetti di medio e cortometraggi VR – sviluppati in realtà virtuale, perché il festival di Venezia è stato uno dei primi al mondo a ospitare una sezione VR.
Qualcosa di apparentemente, ma sarebbe meglio dire tristemente sbalorditivo: un privilegio riservato, appunto, ai frequentatori dei film fest. Per me — qui — la prima volta.
Il festival ha due concorsi, ognuno con la sua giuria: la Competizione Ufficiale, presidente della giuria Bong Joon-ho, destinata quasi esclusivamente alla fiction: unico imbucato Michelangelo Frammartino con il suo crepuscolare Il buco, più un astro che uno scavo, una meditazione filmica naturalista, dove lo studio delle potenzialità della luce – naturale crea delle rappresentazioni visive di una tale potenza che nella mia retina di fruitore urbano – sono ancora impresse – prime e uniche del festival – con tutta la loro pittorica lentezza di mucche e prati e silenzio. La storia è quella dell’esplorazione delle profondità di una grotta calabra, una delle più profonde al mondo; il metodo, anche grazie al direttore della fotografia Renato Berta, in comune con l’altro big italiano Mario Martone e il suo Qui rido io, è quello di Vermeer e del Seicento fiammingo. Ha ottenuto il Premio Speciale della Giuria.
Il secondo concorso, Orizzonti, destinato nelle intenzioni del festival “a film rappresentativi di nuove tendenze estetiche ed espressive del cinema mondiale, con particolare riguardo per gli esordi, gli autori emergenti e non ancora pienamente affermati, le cinematografie minori e meno conosciute, ma anche opere che si misurano con i generi e la produzione corrente con intenti d’innovazione e di originalità creativa” ospita più volentieri documentari o ibridi, così come ha una sezione dedicata ai cortometraggi.
Premiato quest’anno come Miglior Film il lituano Piligrimai (Pilgrims) sostenuto anche dal TorinoFilmLab del Museo del Cinema di Torino, un piccolo film durissimo della regista Laurynas Bareiša al suo esordio nel lungometraggio: due ragazzi, lei poco più che bambina, gironzolano in macchina come in un rarefatto road movie degli anni 70, ma stanno seguendo le orme – proprio come negli anni 70 – della morte… i luoghi dove il ragazzo di lei (Gabja Bargailaite) e il fratello di lui (Giedrius Kiela) è stato brutalmente ucciso da un altro ragazzo impazzito e divenuto killer. Uno stile innegabilmente nordico e hard, senza fronzoli, senza nemmeno le parole o le mosse necessarie a comprenderlo, infatti lo si assorbisce poco a poco: un premio meritato, certamente per l’originalità.
Completa la rosa la sezione senza premi: Fuori Concorso, che quest’anno ospitava l’atteso (e per me deludente) Dune di Denis Villeneuve così come l’ultimo Ridley Scott e l’incarnazione 2021 del carpenteriano Michael Myer in Halloween Kills di David Gordon Green con una Jamie Lee Curtis premiata con il Leone d’Oro alla carriera. Lo aspettavo più di Villeneuve ma ha finito per irritarmi un certo suo sottofondo moraleggiante e moralizzatore, quasi si trattasse di un horror mormone.
Tra le varie proiezioni speciali il documentario che ha inaugurato il festival: il volutamente modesto (e riuscitissimo) La Biennale di Venezia: il cinema al tempo del Covid – diario filmato di Andrea Segre che, da veneziano educato… intervista i lavoratori della Mostra per capire come hanno affrontato i disagi della pandemia: semplicemente bello.
Collaterali: le due rassegne autonome delle Giornate degli autori – promosse dalle associazioni dei registi e degli autori cinematografici italiani ANAC e 100autori – e della Settimana internazionale della Critica con i film selezionati dal Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani, da cui si attendono opere ricercate. Sono due autori italiani a chiudere la Settimana della Critica con due proiezioni speciali: Jonas Carpignano con il cortometraggio A Chiara, e Gianluca Matarrese con il docu lungo La dernière séance (The Last Chapter), proiettati insieme in sala, uno dopo l’altro. Entrambi difficilmente inquadrabili e categorizzabili, sfruttano le potenzialità del mezzo filmico senza seguire nessuna traccia preordinata.
La regia obliqua, velata, di Carpignano segue le disavventure di Chiara — nella Gioia Tauro mafiosa — in modo quasi animale, esaltando la recitazione della dotatissima e giovanissima protagonista (Swamy Rotolo), che sembra illuminarsi e spegnersi come una lanterna secondo le esigenze della narrazione. Carpignano aveva già vinto l’Europa Cinema Label alla Quinzaine des Réalizateurs di Cannes con il lungometraggio di “A Chiara” qui presentato nella versione short girata mesi prima.
Matarrese con La dernière séance firma l’opera forse più originale del festival: un’opera-testamento che è insieme lettera d’amore, in cui Bernard, 63 anni, con cui il giovane regista ha una relazione sado-maso racconta se stesso, da casa sua, attraverso i sui gesti quotidiani, i suoi oggetti, le sue gatte, con disarmante ed estrema dolcezza (la stessa vis estrema che mette nell’amore, diremmo) in occasione di un importante e impegnativo trasloco. La regia di Matarrese inventa le sue regole, i suoi ritmi e i suoi protagonisti: le gatte spuntano qui e là, spesso in primissimo piano, così come spunta il volto di Bernard, il suo sorriso – che ha acquisito la forza e la sicurezza che stanno oltre il dolore — i suoi ricordi, macchiati di morte e di Aids, i suoi enormi e numerosissimi dildo. Quando parte per la nuova casa, le finestre della narrazione si allargano e il paesaggio diventa astratto, velocizzandosi insieme al mezzo di locomozione.
La dernière séance ha appena vinto il Premio del Pubblico al Sicilia QueerFest; Matarrese viene da una lunga ‘gavetta’ all’interno dell’industria cinetelevisiva francese.
Di gusto opposto, ma di sensibilità vicina, l’hitchcockiano Madeleine Collins dalle Giornate degli Autori del regista francese Antoine Barraud. Il film di genere più riuscito è un giallo dai risvolti psicanalitici che insegue il suo finale come la sua protagonista insegue i frammenti delle sue molteplici identità. L’attrice verhoeviana Jasmine Efira, nella parole del regista, era l’unica che potesse affrontare le contraddizioni del suo personaggio senza perdere mai l’empatia del pubblico, perché — “è come un sole”. Avendola vista in sala durante la proiezione speciale, non posso che concordare.
Silvia Lumaca
MY UP
THE CARD COUNTER di Paul Schrader
In tanti si sono stupiti che l’acclamato The Card Counter di Paul Schrader non abbia vinto nessun premio: se non al miglior film, almeno alla miglior regia, per cui sono invece state premiate due sensibilità femminili, Diwan e Campion; né la coppa Volpi al miglior attore, il monumentale Oscar Isaac (un “uno nessuno centomila”… diremmo, parafrasando Pirandello).
Il racconto della parabola discendente di un uomo, William Tillich, ex militare statunitense ed ex torturatore nel carcere iracheno di Abu Ghraib (quello degli scandali) ed ex detenuto condannato per quelle stesse torture ordinategli da suoi superiori a piede libero (pena scontata: 7 anni), ora moderato e astutissimo giocatore di poker professionista: un infallibile contatore di carte.
Nella (tripla) prigione fisica e mentale che Oscar Isaac costruisce attorno al suo personaggio – che dopo il (doppio) carcere non si chiama più Tillich ma Tell — come il Gugliemo Tell di leggendaria memoria — sono compressi tutti i disordini fisici e mentali dell’Occidente tardocapitalista. Una prigione fatta di energia oscura tenuta a bada annullando ogni rischio – di vincere, di perdere, di amare, di guardare, di toccare… — Oscar/Tell dopo aver rimosso ogni quadro dalle stanze di albergo in cui fugacemente dorme (mai vive) avvolge tutto in panni bianchi, annullando odori, colori, sporgenze — ma l’imprevisto ha il volto della speranza di espiazione e Oscar/Tell manderà al diavolo (sic) la sua cautela… Un ragazzo (Tye Sheridan), vittima come lui del “sistema Abu Ghraib” – il padre, collega di Tillich, si è ucciso per la vergogna e la colpa – gli chiede aiuto. Tell/Tillich non si fa pregare.
Molti, tra cui me, hanno visto in questo cupo thriller dalla tensione dilatata, uno dei film migliori di Schrader (carriera di sceneggiatore inclusa) e un unicum alla, per altro qualitativamente ottima, Biennale78. Non così la giuria.
MY DOWN
DUNE di Denis Villeneuve
Frank Herbert non era uno scrittore, era un giornalista sportivo di un quotidiano poco rappresentativo dell’Oregon che, non avendo nessun altro da mandare, lo spedì nel Maghreb come cronista alla più importante conferenza contro la desertificazione del Sahel per lo studio di tecniche di bonifica delle zone desertiche. Era il 1961. Dopo di allora, Herbert non fu più lo stesso. Lesse tutto quello che potè trovare – ma probabilmente anche quello che non potè trovare… – sui deserti, e da questa sua ossessione diede vita all’universo oscuro e misterioso di Dune che ha al suo centro il pianeta omonimo … — non al suo centro fisico, ma al suo centro “energetico:” un’energia indistruttibile data dalla Spezia, l’Épice, data dagli inespugnabili guerrieri Fremen (modellati chiaramente sui Tuareg sahariani), data dai vermi che ne solcano le sabbie come incubi materializzati, come serpenti scacciati da altri paradisi e altri inferni… Forse si può intuire: Dune è da circa vent’anni uno dei miei romanzi di fantascienza preferiti, e mi ferisce dire che della sottigliezza mistica, dell’attitudine filosofica a trattare di avventure e battaglie e della spiritica, più ancora che spirituale, attitudine a trattare il tema del comando… così come della ieraticità sacrale e mozzafiato che lo pervade, non resti niente nell’inutilmente e pervicacemente tecnicistico film di Denis Villeneuve.
Un film che assembla le parti del suo mostro, senza che il dottor Frankenstein sappia infondergli la vita, e che restano così slegate, disorganiche, inutili, morte. Che posso dire? Bravi gli attori, anzi bravissimi, bravi i costumisti, bravi gli operatori, brave tutte le centinaia di persone dietro questa gigantesca macchina produttiva senza una vera testa. Lynch, che una vera testa invece l’aveva, aveva fatto molto meglio con molto meno.