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Simon Winchester. Terra. Da bene comune a proprietà privata, da luogo di dominio a spazio di lotta

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Nel 1879 il governo degli Stati Uniti dichiarò il capo Sioux Orso in Piedi “persona” di diritto. Eppure, gli sottrasse comunque le sue terre.

I colonizzatori occidentali, desiderosi di assicurarsi legalmente il possesso delle terre native, introdussero una formalità che i loro predecessori indiani non avevano mai conosciuto: l’atto di proprietà. Redatto da un organo governativo chiamato Commissione per la confisca.

Dell’occupazione dei nativi americani forse secolare, forse addirittura millenaria, s’intravedono ormai solo pallide ombre. Negli ultimi tempi, alcune comunità del New England hanno iniziato a offrire – anche solo con un breve discorso, una concisa omelia, un momento di silenzio all’apertura di un’assemblea pubblica – un segno di rispetto ai nativi americani. Ciò avviene già da anni in Australia e in Nuova Zelanda, paesi il cui trattamento dei loro predecessori aborigeni non è meno deplorevole di quello palesato in America.

Per Simon Winchester, scrittore e giornalista del «Guardian», il fatto che questa pratica, teoricamente redentiva, si stia diffondendo lentamente fino al tessuto pubblico degli Stati Uniti non può che essere un segnale positivo. In Terra egli si stupisce anche solo di come sia concepito il concetto di proprietà e di come in molti, in tutto il mondo, sembrano spingersi a tanto per acquistare ipotecare difendere rubare comprare entrare in comunione con un’entità che, in verità, non può essere posseduta da nessuno, mai.

Gran parte di coloro che oggi rivendicano il possesso di un terreno lo ha acquistato di seconda mano. In generale, la terra che appartiene a qualcuno ora è già appartenuta a qualcun altro in passato e, che si tratti di un prato o una brughiera, di un tratto sul fianco di una montagna o di un parcheggio sulla strada principale, può essere descritta al pari di un’auto o di una lavatrice: second hand. Non sempre però. Esistono piccole sacche di terra nuove di zecca che non sono mai state di proprietà di qualcuno.

Surtey, al largo della costa dell’Islanda meridionale, è un’isola di circa 600 acri di terra nuova, nata dal mare nel novembre del 1963 e, poiché la sua roccia è crepata e friabile e facilmente spazzata dalle onde e dal vento, sta lentamente diminuendo di dimensioni. Tuttavia, durante la sua esistenza, ha accumulato una discreta quantità di vita non umana.

Nel Pacifico meridionale, una piccola isola è apparsa dopo che si sono diradate le ceneri sparse dal vulcano nel Regno di Tonga. Anche Hunga Tonga come Surtey si sta lentamente erodendo.

La natura non è la sola a creare nuova terra, anche l’uomo lo fa. Discreti appezzamenti di nuovo territorio sono stati realizzati, in luoghi solitamente sovraffollati, a colpi di ingegneria dragaggi scavi demolizione di grandi quantità di materiali che sono stati gettati in mare allo scopo di far nascere nuove proprietà immobiliari.

Il Trattato di Nanchino del 1841 obbligò la Cina a cedere in perpetuo alla Gran Bretagna le isole di Hong Kong e Stonecutters. Quest’ultima, dove la Royal Navy immagazzinava le munizioni per la Flotta del Pacifico in lunghi e profondi tunnel scavati nel granito, non è più un’isola da anni. La discarica la collega ora alla terraferma di Kowloon, e su di essa sono stati eretti condomini e ferrovie e tunnel della metropolitana che la attraversano. La terra appartiene a Hong Kong ma è locata ai costruttori.

A Manhattan esiste un terreno artificiale, nell’unica estensione della discarica che costeggia gli scisti e gli gneiss fin troppo solidi dell’isola stessa. Battery Park City, con le sue migliaia di appartamenti e i suoi alberghi, negozi e uffici, è stata costruita nella punta sud-occidentale dell’isola su un terreno artificiale, dragato sotto gli occhi della Statua della Libertà, strenuamente sbarrato dal mare e poi asciugato e livellato per divenire talmente solido che l’edificazione è proseguita per i successivi trent’anni. Il terreno appartiene ancora a un ente pubblico.

Tutte queste terre, che siano plasmate dalla natura o estensioni create dall’uomo, sono di piccole dimensioni. C’è un paese intero sorto dal lavoro degli uomini che hanno conquistato e strappato il terreno alla natura, o meglio alle acque. Il Regno dei Paesi Bassi ha trascorso gran parte della sua esistenza recente a fabbricare nuovi territori per sé e per gli olandesi e, una volta realizzati, a fare in modo che questi beni immobili divenissero proprietà privata. I Paesi Bassi sono essenzialmente un enorme delta fangoso, un ammasso di pianure alle foci di tre grandi fiumi europei: Reno, Mosa, Schelda. Oggi si compone di dodici province, sei delle quali hanno come suffisso comune la parola land, terra. Il sostentamento del regno è sempre dipeso dal suo successo nel combattere le acque del Mare del Nord, sempre più agitate e, al giorno d’oggi, sempre più alte.

Dal 1880 a oggi il livello del mare è aumentato di oltre 20 centimetri. La velocità con cui il livello del mare continua a crescere è più che raddoppiata nell’ultimo periodo, passando da 1.5 millimetri a 3.6 millimetri all’anno. Se si prende come riferimento il periodo tra il 2013 e il 2021, l’aumento è risultato pari a 4.5 millimetri per ogni anno, secondo i dati del 32° Rapporto State of the Climate. A incidere sul fenomeno dell’innalzamento sono tre fattori principali: l’espansione termica dovuta all’aumento delle temperature dell’acqua, lo scioglimento dei ghiacciai montani e quello delle calotte glaciali di Groenlandia e Antartide.

Almeno 900 milioni di persone, che vivono in aree costiere in tutto il mondo, subiranno l’impatto dell’innalzamento del livello dei mari. Mentre gli abitanti di piccoli Stati del Pacifico, come le Fiji, Vanuatu e le Isole Salomone, già in parte sommerse, si stanno trasferendo.

Si calcola che saranno oltre 1800 chilometri quadrati di terra che rischiano di essere sommersi.

Se, da un lato, si cerca di preservare quanta più terra possibile per averne disponibilità, dall’altra ne si limita l’utilizzo rendendola, di fatto, inaccessibile. Un paradosso che Winchester sottolinea più volte nel testo.

La recinzione della terra, la rimozione di una porzione della superficie terrestre dalla proprietà comune di molti a quella di uno o più individui privati, ha costituito una vera rivoluzione dell’ordine sociale.

I più grandi proprietari terrieri del mondo sono quasi tutti i monarchi o sovrani assoluti. L’elenco non può non includere il sovrano britannico, proprietario tecnico in ultima istanza dell’intera superficie del Regno Unito, dalle Schetland alle Isole Scilly, insieme a porzioni o intere parti delle 54 nazioni ora indipendenti che un tempo facevano parte dell’Impero. Un quarto della popolazione mondiale vive su terre in rapporto nominalmente feudale con la Corona.

I più grandi proprietari terrieri privati del mondo sono australiani. La più grande proprietà singola del paese, nell’Australia meridionale, è una stazione ovina che si estende per quasi 6 milioni di acri. Negli Stati Uniti c’è un discreto numero di proprietari terrieri molto ricchi. I venti più facoltosi possiedono ben oltre mezzo milione di acri a testa, e i primi cento nel loro insieme detengono tanta terra quanto l’intero stato della Florida.

Al centro del concetto di proprietà della terra c’è il diritto di dire agli altri di andarsene. Chi acquista un terreno può godere del Bundle of rights, complesso di diritti: possesso, controllo godimento disposizione e esclusione. Un proprietario terriero può escludere gli altri, può vietare ad altri di entrare nella sua proprietà e ha il diritto di chiedere alle forze all’ordine di costringere chi sconfina ad andarsene.

In molti stati la violazione di domicilio è considerata una grave infrazione dello spazio personale. All’estremo opposto, ci sono paesi in cui è del tutto legale per chiunque trovarsi su un terreno di proprietà privata.

In Scozia dal 2003 non esiste più il concetto di violazione di domicilio. Il diritto di accesso ha, per la maggiore, la meglio sul diritto quantomeno di privacy del proprietario.

Il diritto di muoversi liberamente senza arrecare danno in un territorio, per fare esercizio fisico o semplicemente per ristorare l’anima, è stato per secoli parte inalienabile dell’esistenza umana.

Terra, aria, oceano erano un tempo componenti del diritto di nascita dell’uomo. Oggi, la natura pubblica della terra, in particolare, è stata notevolmente ridotta e i diritti umani universali relativi al suo utilizzo si sono sempre più assottigliati.

In Scandinavia l’antico diritto di muoversi liberamente per il territorio, il cosiddetto allemansrätten – il diritto di tutti – sopravvive e viene custodito.

Tutte le foreste e i terreni agricoli della Bielorussia sono decretati di proprietà pubblica dalla costituzione nazionale postsovietica e chiunque può avventurarsi nei boschi del paese a prendere legna, frutta, bacche e piante medicinali. In Estonia è espressamente consentito raccogliere nocciole a volontà. In Baviera esiste una legge chiamata Schwammerlparagraph – clausola dei funghi – che dà a tutti il diritto assoluto di raccogliere e appropriarsi di piante selvatiche all’interno delle foreste regionali.

Gli usi civici sono diritti che, da sempre, le comunità locali esercitavano sul loro territorio per trarne i prodotti necessari alla sopravvivenza. Nonostante le proprietà collettive sono inalienabili, negli ultimi due secoli la loro superficie si è grandemente ridotta. Alla fine del XVIII secolo rappresentavano circa l’80% del territorio italiano. Ora solo un decimo.

L’istituto delle proprietà collettive è stato quasi sempre ignorato, solo all’indomani della crisi economica del 2008 si è riscontrato un rinnovato interesse per il territorio e le sue risorse, fruibili dall’intera comunità.

Le proprietà collettive italiane presentano una straordinaria biodiversità. Tra le maggiori ci sono: le Regole e le Magnifiche Comunità del Trentino Alto Adige, le Vicinie del Veneto, le Partecipanze dell’Emilia Romagna, le Università Agrarie del Lazio. In generale, sono membri effettivi della comunità individui di sesso maschile, discendenti per linea maschile degli originari abitanti del luogo. Ma questa non è una regola assoluta. Alcune comunità accettano come membri a tutti gli effetti persone che lavorano da un certo periodo nell’ambito della comunità e, in alcuni casi, anche donne.

Il ruolo delle universitas era di notevole importanza nel passato feudale italiano. La sua funzione travalicava la mera gestione di un patrimonio collettivo di terreni comuni, configurandosi come strumento di partecipazione attiva alle scelte importanti nella vita della comunità. Oggi si configura quale forma partecipativa associata di gestione delle terre di proprietà collettiva di un determinato territorio, costituendo un punto di riferimento per i residenti che fruiscono delle risorse naturali ivi presenti.

Per Simon Winchester, le città sono il luogo in cui la terra viene a morire. Dove sorgono le grandi città – Tokyo, Messico, Shanghai, Londra, New York, Il Cairo, Los Angeles, Chongqing, Seul – i pascoli e le foreste sono stati sostituiti dall’asfalto e dal cemento, il verde ha lasciato il posto al grigio, i corsi d’acqua sono divenuti fognature piastrellate, le vallate e le montagne gole intasate di auto che separano i grattacieli. Nelle periferie oltre la cinta urbana, il degrado della terra è stato più insidioso, il suo status deteriorato spesso astutamente mascherato. La terra così come appare è perlopiù un artificio, un simulacro di campagna. Gli spazi pubblici delle città laddove esistono, sono stati a lungo una conferma di questa perdita, presentandosi come sostituti.

L’agorà dell’antica Grecia riconosceva la necessità di uno spazio in cui tutti potessero recarsi per ascoltare i discorsi dei loro governanti, per incontrarsi tra loro, per dedicarsi alla politica o per offrire merci. L’agorà era, a tutti gli effetti, un bene pubblico. Nei centri di alcune città, ancora oggi, si custodiscono terre comuni.

A Newcastle-upon-Tyne, nel nord dell’Inghilterra, c’è il Town Moor, oltre mille acri di terreno agricolo preservato, dove possono pascolare ovini e bovini, scorrazzare conigli e, un tempo, decollare piccoli aerei.

Lo Stanley Park di Vancouver ha pressoché le stesse dimensioni e, proprio come il Town Moor, risulta intatto, inalterato dall’intervento umano.

E poi ci sono i maidan delle città orientali, grandi distese di prati, spazi verdi che fungono, letteralmente e metaforicamente, da polmoni urbani. Alcuni di questi, come il maidan di Kiev e Piazza Tahrir al Cairo, sono diventati famosi come centri di attivismo politico. Altri, come il maidan di Calcutta, ricoprono una posizione più curiosamente postcoloniale, considerata dai bengalesi contemporanei quasi un’apologia compensatoria della precedente autorità imperiale straniera.

Per ogni città utopica progettata ed edificata con grandi speranze – Welwyn e Port Sunlight in Inghilterra, Chandigarth in India, Islamabad in Pakistan – c’è una ventina di aggregazioni umane sovraffollate, con pochi elementi di riscatto e ben pochi ricordi del paesaggio naturale cha hanno sostituito.

Il paesaggio è territorio di comunità, spazio del vissuto, momento di relazioni. Il paesaggio antropizzato è uno spazio in continua costruzione, sede di complesse relazioni interne ed esterne. Tale prospettiva è resa ancor più evidente dall’etimologia del termine corrispondente inglese landscape, che combina la parola land – terra – con un verbo di origine germanica, scapjan|shaffen – trasformare, modellare – per cui il significato è terre trasformate. Il paesaggio è quindi luogo costruito, processo percettivo di rappresentazione, organizzazione e classificazione dello spazio, modalità per ordinare l’esperienza, complesso processo culturale fra diversi poli delle relazioni sociali che prevede le aspettative, le potenzialità, le relazioni di una determinata comunità.

Attraverso i concetti di tempo e di spazio, l’uomo ordina la realtà, le cose, gli eventi, le persone nell’ambiente in cui vive, e questi due elementi divengono fondamentali sia nel tentativo di comprendere la natura, sia nelle potenzialità di realizzazione delle proprie aspettative. In questo senso il landscape diviene un complesso processo culturale e sociale implicato nelle relazioni attive fra persone. Se le idee di tempo e di spazio sono un mezzo di comportamento e delle pratiche sociali, il landscape allora rileverà tali relazioni sociali.1

Il landscape, dunque, come codice grazie al quale osservare una determinata comunità, momento di relazioni interne ed esterne, processo culturale sempre in divenire, costruzione di luogo e narrativa dei luoghi. Il paesaggio osservato nella sua dimensione antropica, lo spazio concepito non come puro contenitore ma insieme complesso di fattori economici, politici, sociali e religiosi che in un determinato ambiente si relazionano.

I missionari salesiani della regione del Rio Das Garcas hanno capito che il mezzo sicuro per convertire i Bororo consisteva nel far loro abbandonare il villaggio per un altro in cui le case fossero disposte in ranghi paralleli. Disorientati in rapporto ai punti cardinali, privati del piano sul quale si basano tutte le loro nozioni, gli indigeni perdono rapidamente il senso delle tradizioni, come se i loro sistemi sociali e religiosi fossero troppo complicati per poter fare a meno dello schema reso evidente dalla pianta del villaggio. Lévi-Strauss mostra così chiaramente l’importanza vitale, per un gruppo di indigeni, del proprio spazio culturalmente concepito e interiorizzato, del proprio landscape, punto di orientamento e piano capace di sostenere il sapere, le relazioni e la memoria storica di una comunità. Non il villaggio in quanto entità materiale ma struttura spaziale in grado di generare e mantenere solidi gli orientamenti e quindi le identità.

Il legame comunità-villaggio è rapporto esistenziale che mette in gioco fattori emotivi e affettivi. Lo sradicamento comporta spesso un malessere, un male del ritorno, un’assenza di luogo che Ernesto De Martino indica come “angoscia territoriale”. Il male del ritorno colpisce gli individui costretti a lasciare il proprio luogo di nascita, il proprio spazio del vissuto, facendo così l’esperienza di una presenza che non si mantiene davanti al mondo, davanti alla storia.2

Il place attachment è correntemente indicato come il fenomeno per cui le persone formano forti legami emotivi con l’ambiente fisico.

Il legame di attaccamento sembra emergere con maggiore incisione quando l’individuo si distacca dal luogo e in maggior misura quando è costretto a distaccarsene. Tra i vari aspetti dell’attaccamento vi è quello legato alla sfera simbolica, indice del bisogno di attribuire grande importanza a un particolare luogo perché si ritiene che esso sia stato determinante per la formazione dell’identità personale, famigliare e di gruppo.

Ma nell’ambito degli studi sui luoghi e le sue circostanze esperienziali va ricordato anche l’impatto che esso ha sulla qualità della vita. In alcuni studi è stata evidenziata la prevalenza di depressione, dolore e danni emotivi causati dalla “mancanza di spazio” e dalla perdita della terra. La ragione potrebbe essere la mancanza di luogo e di attenzione da parte delle persone nella gestione dello spazio. Negli ultimi anni, l’attenzione di architetti, designer e pianificatori è aumentata e il ruolo del design come strumento per modellare l’ambiente e rispondere alle aspettative umane ha acquisito maggiore importanza.

Un ambiente è composto da una combinazione di parametri fisici e sociali. Quindi il rapporto tra le persone e il luogo è reciproco. Le persone traggono significati diversi dai luoghi e poi gli trasmettono un significato. Il senso del luogo è l’esperienza di tutto ciò che le persone inducono nei luoghi.

Nell’ambito del place attachment di recente è stato inserito anche l’attaccamento al posto di lavoro. Comprendere le relazioni affettive, cognitive e comportamentali delle persone alla perdita di luogo dovrebbe informare le strategie prevalenti di gestione del cambiamento organizzativo. Le parti interessate dovrebbero essere consapevoli dell’impatto che il cambiamento sul posto di lavoro può avere sui lavoratori che potrebbero sentirsi minacciati e resistenti ai cambiamenti.

L’attività di vivere e conoscere uno spazio è attività cognitiva, in un sistema in cui l’uomo diviene organizzatore di un habitat da lui modellato. Ciò comporta una interiorizzazione dei luoghi, ancora Ceccarini afferma che gli individui diventano essi stessi luoghi. La percezione del proprio landscape è dentro se stessi, depositata nel bagaglio di conoscenze e ciò consente, anche senza un rapporto visivo e diretto col paesaggio, di ricostruire il proprio luogo del vissuto, la propria mappa mentale.

Esiste anche un forte legame con il mondo del suono, ovvero l’insieme di rumori, voci, musiche rituali, strumenti che vanno a formare il “paesaggio sonoro” di una determinata comunità nel suo territorio: il soundscape. Un paesaggio, soprattutto quando è antropizzato, è anche un paesaggio sonoro. E l’elemento sonoro si costituisce come chiave di lettura dell’identità di una comunità, al pari di altri elementi, quali l’economia, i riti, la parentela.

Il paesaggio, al pari di qualsiasi altra sfera del sociale, è estremamente dinamico, soggetto a cambiamenti continui in rapporto alle trasformazioni, sempre più accelerate, della società contemporanea.

Costruire, nel senso di edificare, e abitare sembrano fra loro collegati da una relazione strumentale: si costruisce per abitare. Tuttavia, la sfera dell’abitare appare molto più vasta di quella del semplice alloggio, dell’abitazione in senso stretto.

La relazione dell’uomo con l’ambiente è bidirezionale: da una parte c’è il modo in cui l’ambiente ha influenzato l’attività degli esseri umani, i quali hanno dovuto adattarsi all’ambiente, e dall’altra c’è il modo in cui gli esseri umani hanno determinato cambiamenti adattando l’ambiente alle proprie esigenze.

L’abitazione è stata considerata un’estensione dell’individuo, una seconda pelle, una sorta di carapace efficace tanto a mostrare quanto a nascondere e a proteggere, oltre a rappresentare un importante agente si socializzazione. Ma la casa è anche dove lo spazio si fa luogo, dove le relazioni famigliari, di genere e di classe vengono negoziate, contestate o trasformate. È un contesto attivo nel tempo e nello spazio adatto allo sviluppo dell’identità individuale, alle relazioni sociali e al significato collettivo. Non è da considerarsi come una cosa, bensì un processo dal momento che trovare accoglienza è qualcosa in cui siamo costantemente impegnati. Chi promuove nuovi modelli innovativi di abitazione tende a sposare una concezione dell’abitare che dà importanza alle attività di cura verso gli altri per creare e mantenere un mondo comune abitabile, un mondo umano. Ciò implica trasformare gli spazi della città e della casa in territori domestici, cioè luoghi che percepiamo come ambiti dell’intimità e del radicamento, in cui ci sentiamo a nostro agio, che siamo in grado di controllare dal punto di vista cognitivo e che ci coinvolgono dal punto di vista emotivo.

Irma Loredana Galgano

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Simon Winchester, Terra. Da bene comune a proprietà privata, da luogo di dominio a spazio di lotta, Mimesis, Milano – Udine, 2023.

Traduzione dall’inglese di Donatella Caristina.

Titolo originale: Land: How the Hunger for Ownership Shaped the Modern World.

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1G. Ceccarini, N. Rezashateri, Mundus. Tra paesaggio, memoria e uomo, in Dialoghi Mediterranei, 1 marzo 2020.

2E. De Martino, La terra del rimorso, Einaudi, Torino, 2023.

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