Un filosofo nel senso più “tradizionale” del termine, allievo a Parigi di tal Jacques Derrida.
E proprio quel filosofo, alla fine de La palestra di Platone, a ammette di aver passato parecchia parte della propria vita tra grandi biblioteche e la scrivania del suo studio ma, al contempo, di essersi rapportato per la prima volta alla filosofia nell’estate del 1989, a quindici anni d’età, leggendo alcuni passi di dialoghi platonici nelle pause dalle lezioni di windsurf che stava prendendo all’Isola d’Elba.
Non è l’impostazione della trama di un racconto, per quanto verosimile possa essere. Anzi, di per sé un racconto lo è, ma di vita vissuta: l’inizio della vita filosofica di Simone Regazzoni, “filosofo del corpo”.
Praticante Hwa Rang Do, arte marziale tradizionale coreana, ma appassionato di una miriade di altri sport di lotta – dal pugilato al grappling passando per le arti marziali miste – il nostro, superando senza remore la visione ufficiale di quello che egli stesso definisce “filosofo da tavolino”, decide di impegnarsi a trasporre la filosofia nelle palestre. A riportare la filosofia nelle palestre.
Attenzione però, togliamoci dalla mente le avveniristiche palestre del giorno d’oggi, le quali più che luoghi deputati all’allenamento fisico – e conseguentemente mentale, direbbe Regazzoni – sembrano laboratori futuribili atti alla realizzazione dell’uomo perfetto tramite macchine. Quella che l’autore ha in mente, e alla quale fin dal titolo si vota, è la palestra di Platone, il gymnasion a nord ovest di Atene in cui si praticavano «con la stessa serietà il dialogo e la lotta».
È esattamente questo il punto centrale della trattazione del nostro filosofo carnale, l’allenamento del «plesso mente-corpo»: allenare una parte soltanto di quella diade quasi perfetta che è il corpo umano, significa di fatto impedirsi di vivere appieno la vita. Data per assodata l’importanza della filosofia come “cura di sé”, Regazzoni non accetta il fatto che tale cura, sia fatta riguardare dai più soltanto l’ambito mentale, non anche quello corporeo. Eppure, piaccia o non piaccia, non siamo soltanto anima, spirito, ma anche corpo: fibre, muscoli, ossa, sangue e molto altro, di parecchio più e molto meno nobile.
Nel ginnasio platonico si praticavano al contempo il dialogo filosofico e quello fisico. Non sono rari i documenti – certo di autori vissuti diverso tempo dopo Platone, come Diogene Laerzio (circa 180-240 d.C.) – nei quali viene riferito che quel filosofo spesse volte lasciava la passeggiata filosofica assieme a taluni allievi lungo il perimetro colonnato del gymnasion per recarsi al centro della palestra, ove si trovava un rettangolo di sabbia, a correggere altri suoi discepoli nell’esecuzione di una determinata presa o proiezione o nello sferrare al meglio calci e pugni.
Di lui, filosofo di lotta, ci è stata tramandata notizia di diverse vittorie in campo del fighting: certuni parlano di pancrazio (presumibilmente il più diretto antenato delle MMA), altri di lotta “semplice”. Ancora, alcuni documenti riportano di sue vittorie ai giochi istmici di Corinto e a quelli nemei, altri nei giochi corinzi e in quelli olimpici.
Ma Simone Regazzoni, pur sentimentalmente e intellettualmente votato alla trasmissione a noi lettori delle gesta di Platone allenatore di corpi e menti, non si ferma qui. Ammette esplicitamente di non aver scritto questo saggio per fare sport dell’archeologia, bensì per far tornare in auge un determinato tipo di allenamento e un determinato tipo di pensiero anzi, un determinato tipo di sovraconcetto, che racchiuda in un unicum i due concetti di cui prima. Mette infatti nero su bianco quanto filosofia e rafforzamento del corpo possano andare più a braccetto di quel che si pensi, anche in epoca contemporanea.
Non vogliamo certo rubare ai lettori il piacere di scoprire per proprio conto il perché di questa affermazione dell’autore, la quale – diciamolo pure – può lasciare notevolmente basiti, e da quali grandi nomi – della filosofia, degli sport di lotta, del cinema e via dicendo – si faccia coadiuvare per convincerci.
A ogni modo, un riferimento ci sentiamo in dovere di farlo, e basti per tutti gli altri: Bruce Lee.
Considerato tra i più influenti se non il più influente artista marziale di tutti i tempi, colui che finalmente seppe far assimilare in Occidente le arti marziali tradizionali del Levante – specialmente il Kung Fu di stile Wing Chun – non come mera esecuzione teatrale ma come effettive tecniche di lotta, offensiva e difensiva, studiò filosofia a Seattle. Ogni volta che lo rivelava, notava divertito l’incredulità negli occhi dei suoi interlocutori, i quali tutti pensavano che – nel caso avesse studiato – certamente lo doveva aver fatto nell’ambito delle scienze motorie.
Quale rapporto poteva infatti sussistere tra un uomo che sentiva fortissimo il culto del corpo e una materia da intellettuali “puri” chini sui libri, magari rachitici, debolucci e tutto fuorché prestanti? Quante cantonate possono far prendere le generalizzazioni…
In questo libro, Regazzoni parla pure parecchio di sé. Lo fa in maniera globale, quasi a mo’ di flusso di coscienza: parla di vittorie e sconfitte, gioie e drammi. Ci fa capire che è tutta questione di tentativi e che comunque, sia con la mente che con il corpo, non è mai male provare a spingersi un po’ più in là.
Lo dice da praticante di discipline di lotta e sportive in genere e da allievo di un filosofo, il quale pure non ha mai mancato di dedicarsi anche a corse sfiancanti e al tiro con l’arco e che in giovane età non aveva nessuna idea di diventare il profeta del decostruzionismo, bensì un calciatore professionista.
È sempre meglio provare piuttosto che rinunciare in partenza perché convinti della non riuscita.
Alberto De Marchi
Recensione al libro La palestra di Platone. Filosofia come allenamento di Simone Regazzoni, Edizioni Ponte alle Grazie 2020, pagg. 205, € 15,00