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Solo i santi non pensano. Intervista a Mattia Tortelli

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Per Le Tre Domande del Libraio su Satisfiction questa settimana incontriamo Mattia Tortelli, giovanissimo scrittore lombardo, da poco in libreria con il suo primo romanzo dal titolo “Solo i santi non pensano” edito da Fandango Libri.

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Mattia ti ho conosciuto grazie alla tua azione di agitatore culturale all’interno di una libreria di Crema, La Storia, la cui proprietaria, Simona Lunghi, è persona a me molto cara e vicina. Ci vuoi raccontare il tuo percorso nel mondo dei libri e poi della scrittura, per poi spiegare come nasce l’idea di questo romanzo di formazione e come sei arrivato alla casa editrice Fandango?

Intanto un saluto e un grazie per questo spazio virtuale. Ritengo di dovere sempre molta gratitudine a chi impiega tempo per leggermi. Tutto nasce banalmente ma anche fatalmente dai libri. Ho sempre avuto una grande passione per la lettura, ricordo che spesso le domeniche da bambino si faceva un giro a uno dei primi grandi centri commerciali qui nell’hinterland milanese e i miei mi hanno sempre raccontato che prima di iniziare le compere mi portavano nella libreria al secondo piano per scegliere un libro e che passavo il resto del tempo a leggere seduto nel carrello mentre giravano per negozi. E poi credo che la scoperta e lettura di Harry Potter quando avevo appena iniziato la prima elementare – insieme a mia madre la sera prima di dormire e poi da solo sulla panchina in giardino durante la ricreazione quando ero abbastanza grande per farlo – sia stata la vera rivelazione: non avrei più smesso di leggere perché abitare altri mondi era diventato per me necessario. E con me è cresciuta quindi anche la passione. Negli anni non ho mai abbandonato i libri, che si sono caricati pian piano anche di significati diversi: volevo comprendere (illusoriamente) il mondo, volevo sentire che quello che provavo non lo avevo provato solo io, volevo la potenzialità di essere in altri modi e altro da me. Così ho concentrato i miei studi sulla letteratura, ho iniziato a collaborare con realtà che mi portassero dagli scrittori attraverso le loro opere: università, librerie, biblioteche, festival letterari. E Simona Lunghi in questo è stata la prima a darmi reale fiducia. Ricordo ancora l’invito all’inaugurazione della sua libreria “La storia” a Crema: tanta gente che le voleva bene, lo spumante, i libri, la sua luce e tutta la potenzialità di quel luogo. Ho cominciato da e con lei a presentare autori e autrici, i gruppi di lettura, i festival al parco. La fiducia è un motore potentissimo di autostima e a Simona devo tantissimo. E, mentre facevo tutto questo, in parallelo ha sempre viaggiato la scrittura, che delle storie e dei talenti degli altri ha provato a nutrirsi.
L’idea del libro nasce quando non riuscivo più bene a dare un senso alla mia scrittura, perché fino a quando non è arrivata questa storia, ero convinto che la scrittura fosse terapeutica, che dovesse esserlo, perché mi aveva accompagnato in ogni momento ma soprattutto era stata importante durante il periodo più buio della mia vita e mi aveva tenuto a galla. Le ero grato, certo, ma dopo quel periodo quasi terapeutico lei aveva come smarrito la sua potenza, soprattutto perché la legavo alla finalità della pubblicazione. Così, di rifiuto editoriale in rifiuto editoriale, avevo quasi abbandonato l’ambizione di essere pubblicato perché questa smania di “arrivare” mi stava portando allo smarrimento del senso della mia scrittura. Fandango è arrivata un’estate di qualche anno fa. Abbiamo fatto una riunione su Zoom io e Lavinia Azzone, la persona che sarebbe diventata la mia futura editor e mi avrebbe permesso di ripensare al perché io scrivessi, messi in contatto da Marco Nardini e la sua agenzia che qualche anno prima aveva creduto nella mia scrittura – di nuovo la fiducia come motore dell’azione. Durante quella chiacchierata era emerso che le storie scritte fino a quel momento avevano un problema, ovvero l’essere troppo ombelicali. E in prima battuta questa cosa mi aveva spiazzato: non credevo che sarei riuscito a scrivere altro, quello era il modo in cui usavo la scrittura, ero preoccupato che non avrei saputo scrivere in altro modo. Così è arrivata la sfida di presentare a Fandango due trame a settembre per capire se avremmo potuto lavorare insieme. E la storia di Gabriele, il mio protagonista, è allora emersa in quei giorni torridi come risposta a quelle parole. Frutto di un incontro avuto realmente anni prima e dell’idea che è poi lo spunto iniziale del cosa resti quando crolla tutto ciò in cui si è arrivati a credere intensamente, la proposta della trama e la successiva stesura del romanzo mi hanno portato a rivalutare il senso del mio scrivere. Lo definirei un romanzo di (tentata) formazione, perché a Gabriele manca il suo passato, sradicato da tutto da quando ventenne esce dalla setta di Testimoni in cui era entrato alla morte del padre da bambino seguendo la madre, e perché quindi gli manca la capacità di pensarsi nel presente. Da sempre si è intitolato così e da sempre è stato diviso in tre parti relative ai passaggi necessari alla canonizzazione: essere morti, aver fatto un miracolo e subire un processo. Perché questo succederà a Gabriele, il vano tentativo di accettare che non sarà mai santo e che quindi sarà costretto al pensiero.

E questo romanzo non ha nulla a che vedere con l’autofiction, ma ora che il libro esiste nel mondo, mi rendo conto di quante delle cose che ho vissuto, dei miei temi, della mia terapia sia filtrato in queste pagine. E lavorare con Lavinia mi ha restituito un senso nuovo dello scrivere che è mutato da quell’illusione catartica della scrittura. Ora, scrivendo, cerco di ricreare mondi, abitare altrove, mettere un punto fermo, non consolare ma rivelare. Scrivere di Gabriele mi ha fatto conoscere me stesso anticipando molte delle consapevolezze che sono arrivate poi con la terapia. Ed è stata un po’ la chiusura di un cerchio rispetto al rapporto con la lettura di cui dicevamo all’inizio.

La storia emozionante di un trentenne di nome Gabriele appassionato di piante e alle prese con profondi quesiti esistenziali. Ti va di raccontare nel dettaglio, per i nostri lettori forti di Satisfiction, le vicende, i personaggi, i luoghi che animano questa narrazione?

Tutto muove dal passato per tentare un futuro. E nella mia idea iniziale c’è sempre stato il racconto del superamento del trauma che non volevo fosse il centro della narrazione: la cura invece che il ricordo. Così è nata la storia di Gabriele, che conosciamo a trent’anni il giorno in cui ricorre l’anniversario della morte del padre. Gabriele è a letto, sveglio dopo una notte insonne, e decide che quel giorno non si masturberà. L’incipit insiste proprio su questa scena, perché il tema del corpo, del riappropriarsene, del comprenderlo e usarlo, è centrale nel romanzo: Gabriele non lo ha mai posseduto davvero durante il suo percorso nei Testimoni e dunque lo deve sperimentare, come un bambino che impara tutto da capo. E in realtà questo avviene in ogni situazione, così ho cercato di renderlo universale per ogni lettore, perché l’uscita dai Testimoni che Gabriele compie quando capisce che vuole continuare a studiare architettura e non seguire più la madre alle adunanze è l’esempio massimo che ho usato per raccontare la fine di qualcosa di fondamentale alla quale abbiamo creduto: la rottura di una relazione, un lutto, la perdita del lavoro, il crollo del sogno. E Gabriele ha vissuto gli anni dai venti ai trenta praticamente isolato, perdendo l’unica amicizia che aveva avuto ai tempi dell’università e perdendo anche il lavoro per cui aveva studiato dopo che nel cantiere in cui faceva l’architetto erano avvenuti degli arresti.
Troviamo così Gabriele al cimitero, con i suoi ricordi e la sua fatica nel combatterli. Ma quel giorno Gabriele non è da solo: alle sue spalle, infatti, la zia, sorella di sua mamma e persona che lo ha guidato da bambino alla scoperta delle piante di cui ora si prende cura non riuscendo a prendersi cura delle persone, gli comunica che sua madre non sta bene. Antonella, la zia di Gabriele, è una donna a cui lui vuole molto bene, ha una casa con una grande serra dove da bambino aveva passato molti pomeriggi e dove ora da adulto Gabriele andrà più volta per cercare un confronto e per provare a capire cosa fare. Perché sua madre Gabriele non la conosce più e forse non l’ha mai conosciuta avendo avuto rapporti con lei solo fino all’adolescenza, non superando ancora la soglia dell’età adulta che porta i figli a conoscere davvero i genitori per le persone che sono. E Gabriele in generale non si sente ancora adulto, sente di aver affrontato piuttosto male il suo percorso di crescita, intento a galleggiare sulle cose più che a viverle. Ne vorrebbe parlare più spesso con Peppuccio, l’anziano signore che gestisce il vivaio dove Gabriele compra le piante da quando si è trasferito da casa di sua madre. Peppuccio è un uomo siciliano che usa il dialetto ma parla poco, preferendo la compagnia delle piante. La sua serra sarà contraltare di quella della zia: quella di Peppuccio è un rifugio a cui tornare. E poi c’è un altro personaggio importante in questo romanzo che è Enrico. Lui è stato una figura importante all’interno dell’organizzazione dei Testimoni, ma ora non ne fa più parte. È da lui che Gabriele decide di andare a un certo punto per comprendere meglio i suoi pensieri rispetto al riavvicinamento con la madre. La figura della madre è per me ancora un enigma. Quando la mia di madre ha letto il romanzo mi ha domandato se il personaggio descritto fosse ispirato a lei, se dovesse fare qualcosa perché questa madre non ne esce a suo dire benissimo da questa vicenda. Ma io non sono d’accordo. Intanto, non è solo una madre quella che ho scritto ma è in generale una figura genitoriale che unisce gli aspetti per me più complessi e problematici degli adulti di riferimento che ho avuto. E poi, la madre di Gabriele è, secondo me e nei miei intenti, una figura rivoluzionaria nella rivelazione che fa al figlio sul finale, che poi è stata la rivelazione che mi ha permesso di scrivere quel dialogo tanto atteso per tutto il libro e mi ha fatto capire che la storia era terminata. Quelli raccontati fin qui sono i personaggi che appartengono al passato, al trauma appunto e con i quali Gabriele si dovrà necessariamente confrontare per sbrogliare alcuni nodi del suo passato nella prima parte del libro. Ma quelli che permettono a Gabriele la realizzazione del superamento del trauma sono Antonio e Matteo, la giovane coppia che Gabriele conosce durante una disinfestazione e dalla quale imparerà un rapportarsi nuovo.

Di Gabriele non ho ancora parlato direttamente perché lui appartiene ad entrambe le categorie: c’è un Gabriele prima e un Gabriele dopo ogni evento che succede nel libro. In generale, però, nel prima Gabriele è un bravo bambino, con una S un po’ troppo sibilante che fa arrabbiare la maestra Anna e senza i compleanni da quando entra con la madre nei Testimoni. Gabriele è poi un adolescente tendenzialmente isolato, ancora inconsapevole rispetto al suo orientamento sessuale e scisso tra cosa vuole per lui la madre e il non aver compreso i suoi di desideri. Esce dai Testimoni per continuare a studiare architettura, si laurea, lavora in un cantiere prima e in una ditta di disinfestazioni poi, scopre il corpo da adulto grazie ad app di incontri che gli portano il piacere sessuale e nient’altro. È timido, invidia la gente che riesce a non pensare perché, dopo essere stato quasi dieci anni senza avere rapporti con nessuno, all’arrivo di sua zia al cimitero i rubinetti di ricordi si aprono e tutto si allaga. Non è santo, cerca di vivere, inciampa più volte, fa per molta parte di questa vicenda della rabbia il motore dell’azione, una rabbia composta però, educata, come lui. Gabriele è tante cose che sono stato e che sono a volte tutt’ora.

Il luogo è indefinito, non viene citata esplicitamente nessuna città ad eccezione di Fano, nelle Marche, luogo in cui Gabriele passa le estati da bambino con sua madre e suo padre. Dall’ambientazione descritta però si intuisce che ci troviamo in pianura e nella mia mente i luoghi sono stati quelli della Pianura Padana in cui sono cresciuto: i campi ordinati e claustrofobici nel loro ripetersi a perdita d’occhio, le cascine ristrutturate, i colori tenui, i ruscelli e i fiumi in cui la gente va ancora a pesca. È la campagna che mi ha visto bambino, nella quale andavamo a fare i giri in bici e ad ascoltare le rane. Ci sono il vivaio che dista pochi chilometri da casa mia, e la casa in cui ho vissuto da sempre e che la scorsa estate abbiamo dovuto lasciare, ci sono l’ospedale in cui ho fatte visite in questi anni e l’edificio che è il liceo che ho frequentato. Insomma, non c’è una toponomastica perché volevo che la vicenda fosse in un certo senso possibile in ogni luogo, ma la Pianura Padana è il riferimento che ho avuto anche per la sua ricorsiva sensazione di angoscia che mi ha spesso creato e che crea a Gabriele, metafora della situazione emotiva che vive per quasi tutto.

ln esergo un passo significativo della Apocalisse 7, 2-3, ma prima una frase manifesto di Cesare Pavese tratta da Dialoghi di Leucò: ” Ho cercato me stesso. Non si cerca che questo “. A partire da questa frase vogliamo approfondire la scelta delle tematiche e anche la scelta formale per poterle narrare e alla luce di questa se ci porti nell’officina di lavorazione del romanzo?

“Solo i santi non pensano” è stato, come già scritto, da sempre il titolo che ha avuto questa storia. E il titolo si completa e dialoga con i titoli dei tre libri in cui la vicenda è divisa. Quando mi è stata richiesta una trama, lo svolgimento non mi era del tutto chiaro, ma questa struttura di partenza è sempre esistita. Volevo ragionare sul concetto di santità in relazione all’essere invece terribilmente umano, mi interessava comprendere quanto il processo di canonizzazioni venga fatto solo dopo la morte e da persone altre, certificando un miracolo e istituendo un vero e proprio tribunale morale. E questi sono gli stessi passaggi che Gabriele deve affrontare sebbene ci tenga a sottolineare alcune differenze. Gabriele, prima di tutto, è vivo. La sua morte avviene rispetto al passato, è figurata ma ha effetti tangibili sul presente ed è un passaggio che lui stesso deve realizzare. In secondo luogo, il miracolo fatto sembrerebbe principalmente quello di essere uscito dai Testimoni, ma è probabilmente la sopravvivenza fuori dalla setta e nei pensieri il vero passaggio fondamentale. Infine, il subire un processo, che implica di per sé qualcuno che appunto “lo subisca”, avviene certo nella realtà dei fatti – in una scena è anche narrativamente rappresentato dalle figure del suo passato – ma è la svolta che permette a Gabriele di decidere i suoi nuovi giudici – che giudici non saranno più, ma che saranno trasformati in sostenitori. Gabriele non è dunque un santo in senso stretto, non compie il processo di canonizzazione religioso, ma seguendone i passaggi prova a ribaltarlo in una consapevolezza in vita diversa da quella di partenza: non subisce più, prova a scegliere, di sicuro persiste nell’esistere. È una continua fuoriuscita dal credo che gli serve per posizionarsi nel dubbio che Gabriele abita di continuo e che nel corso della vicenda prova a gestire e a rendere punto di forza.
Gli esergo, al contrario del titolo e della divisione dei libri e a eccezione di quello del primo libro, erano nelle prime stesure diversi. Inizialmente avevo scelto tutti brani tratti dalla Bibbia. Successivamente, però, quando ho realizzato che la setta di Testimoni era solo un pretesto per raccontare la fine dei mondi creduti e possibili, ho deciso di accompagnare Gabriele in altro modo e ho realizzato che fosse necessario aggiungere un esergo generale per tutti e tre i libri. E così, ad accogliere il lettore, è arrivato l’Orfeo, “L’inconsolabile”, dei “Dialoghi con Leucò” di Cesare Pavese che in questa rivisitazione del mito rivendica con convinzione di aver cercato se stesso, in un dialogo con Bacca che per me rimane una delle cose più belle mai lette: Orfeo non si è girato per errore o per troppo desiderio, l’Orfeo di Pavese si gira quando guardando il cielo ha la consapevolezza che la stagione con Euridice è terminata, che terminata è la giovinezza, che non può più essere ebbro ma che vuole stare saldamente nella realtà. Piangendo Orfeo trova se stesso, e per farlo ha bisogno di scendere fino all’Ade e combattere e poi prendere una decisione assoluta. E in questo Gabriele ammira Orfeo.
Dei tre esergo dei tre libri, il primo, come dicevo, è l’unico che è sempre rimasto uguale: l’Apocalisse e gli angeli mandati a imprimere il sigillo di Dio. Non è niente di diverso da ciò che succede quando ci votiamo totalmente a qualcosa fino a perdere la ragione e il senso di tutto. Eppure, mi sono reso conto durante la stesura del romanzo, questo esergo dialoga con quello di Pavese: perché così come per Orfeo è l’aver conosciuto la morte il motore delle scelte, per Gabriele sarà il suo essere morto per alcuni la spinta al vivere di nuovo nel dopo. Sarà tutto molto faticoso, ma in fondo Gabriele è una persona che resiste e che io celebro semplicemente perché è viva e questo lo rende un personaggio al quale voglio molto bene. Gli altri due esergo sono legati tra loro seguendo il percorso verso l’indipendenza dal giudizio degli altri che sarebbe invece necessario nel reale processo canonico. Nella parte dell’aver fatto un miracolo è Donna Tartt a ricordare al lettore che non si può scappare da ciò che siamo, che è al tempo stesso una condanna e una salvezza perché una volta che lo si accetta, si comincia a vivere, e Gabriele dovrà fare proprio questo, soprattutto in relazione al suo passato. E una volta avviato verso la liberazione, nel terzo libro è Irène Némirovsky a chiudere gli esergo e ad aprire la parte del subire un processo: “Ecco ciò che volevamo: bruciare, lasciarci consumare, divorare i nostri giorni come le fiamme divorano la foresta”. È più un’aspirazione: Gabriele non ne è ancora capace, eppure ci prova, tende a quello, inizia ad abitare la possibilità come Dickinson e questo lo salva.
Le tematiche principali sono allora quelle legate al disfacimento dei mondi, alla paura di poter e dover essere altro, emerge il tema del lavoro e di questa generazione di trentenni che galleggiano sulle cose, si parla di rapporto con i ricordi e di talee come possibilità di essere altro pur avendo dentro di sé le cellule dei propri genitori, si parla di essere madre ed essere figlio, di cura come soluzione, di superamento del trauma, di esplorazione e riappropriazione dei corpi. E per fare questo ho messo al servizio della storia un linguaggio paratattico, che presenta molti tratti di scomposizione e di minimalismo linguistico con un’attenzione alla scelta delle parole che portassero per mano il lettore nei pensieri. Molte volte la scena rallenta e il pensiero statico rievoca la paralisi e la stasi vissuta da Gabriele, come l’acqua che ristagna nei sottovasi e rischia di far morire la pianta di anossia. Gabriele è una talea di essere umano. In questo siamo simili io e lui e forse, in generale, noi e lui.

Buona Lettura del bellissimo libro di Mattia Tortelli.

Antonello Saiz


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