È una raccolta di racconti Il mio amico di Daniela Matronola, il cui protagonista, Mauro, è un anestesista che fin da ragazzo ha nutrito la passione di sorvegliare e frenare il dolore altrui e quello proprio. A ben vedere, questi racconti, pubblicati da Manni nel 2020 per la collana “Pretesti” con la prefazione di Paolo di Paolo, possono essere letti come capitoli di un romanzo. Inoltre la voce narrante, prima quella dell’autrice e poi quella di Mauro, ci accompagna in un raccontare il cui stile spesso evoca quei lunghi e affascinanti fraseggi à la Proust, non lesinando vocaboli ricercati accanto a termini colloquiali. Ma c’è come un intreccio che in poche pagine coltiva l’idea di un mondo oltre la vita del protagonista: la Storia, il lungo dialogo sull’Olocausto e sulla dittatura di Stalin; e pure la quotidianità degli altri personaggi: il padre, per esempio.
Il padre, e il suo nome, in termini lacaniani, è presente nel corpo di una scrittura raffinata e in quello del byroniano, affascinante, protagonista. Ça va sans dire: non ci si può augurare altro che di riavere fra le mani un altro libro di Daniela Matronola.
Gianluca Garrapa
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Di seguito l’intervista a Daniela Matronola.
«Per la cronaca l’aguzzino pentito e divorato dal senso di colpa era suo padre, noto archistar, ma non è qui che si può spiattellare tutta la storia». Questo passaggio mi ha colpito molto perché sembra evocare il tema centrale dei racconti: il non detto. Il segreto di famiglia, ma anche e soprattutto il dolore, soprattutto fisico, che non ha mai le parole adatte a farsi comunicare. Il reale del corpo, insomma, non può essere imbrigliato nel simbolo del linguaggio. Non è qui, nella lettera, e forse nemmeno nell’immagine che si può “spiattellare” il nostro comune dolore. Che rapporto c’è tra il dolore e la (tua) scrittura?
Il nesso è stretto, se è vero, come è vero, che sempre la scrittura nasce da una frattura. L’idea è proprio che il racconto, intessuto di memoria ed esperienza, storia personale e Storia, si scatena e dilaga nel momento in cui succede (e immancabilmente accade) qualcosa che incrina una superficie integra, se non addirittura qualcosa che sparge in pezzi una superficie già segnata, già sul punto di sgretolarsi. Calando questo discorso in apparenza un po’ teorico e freddo nella materia di racconto che si agita in questo libro, proprio lo scontro o il raffronto, la contiguità inattesa tra la impassibile documentazione e l’incandescenza della materia che la sostanzia mi sembra la “figura” che lentamente emerge nel corso del libro e poi si staglia. Per cui l’esemplarità del protagonista e delle sue vicende sta nel molto raccontato come nel poco non detto – quest’ultimo è elemento-chiave. Per cui incide, e molto, nella ricostruzione che noi con il protagonista facciamo per centrare il vero cuore della faccenda: la vita interiore, sua e di tutti noi, e la fortuna, intesa come sorte, che ci accompagna tutti nel corso delle nostre personali avventure umane.
«Io ci stavo per un corso, il primo finanziato da mio padre, tipo full immersion: così impari a masticare un po’ d’inglese, Mauro».
La presenza del padre e della lingua, sono in continua alternanza con il desiderio di fuga, quella sorta di disobbedienza creativa che porta a sfrondare la nostra storia di quel surplus di cultura e nozioni, ma anche eccessiva educazione, che limiterebbero la creatività, la vita, il desiderio. Il protagonista sembra costantemente lottare tra legge e desiderio, tra idea di fuga e sottomissione: come mai hai scelto di dare voce a una figura maschile e che ruolo gioca nella tua creatività il binomio legge\desiderio?
Come cerco di dire nella paginetta finale, che in genere è destinata ai ringraziamenti, la figura del protagonista mi è venuta incontro spontaneamente. Forse questo meccanismo non è facile né da capire né da accettare ma è andata veramente così. Credo sia più semplice dire, e tocca a me farlo, visto che sono l’autrice, che questo protagonista, che io amo profondamente, è la forma che letterariamente ha preso a un certo punto la mia percezione del mondo.
Cioè la conoscenza del mondo, da un certo momento in poi, ha cominciato a passare attraverso una oggettivazione (e finzione) che ha preso le sue sembianze. In effetti il binomio legge/desiderio che mi accompagna riesco a sbrogliarlo o, meglio, ad armonizzarlo se sposto il discorso (che poi è scrittura d’invenzione) su di lui, se lo allontano da me. Un escamotage che giova anche a raffreddare la materia, a pulire il ragionamento, a far funzionare meglio il pensiero sensibile. La sensibilità raffreddata e il pensiero ravvivato e caldo, non insensibile. Anche il protagonista di questi racconti dopotutto è un padre, una figura paterna però nel modo e nell’accezione che la figura del padre ha ora. Non più l’autorità costituita e per certi versi inaccessibile come il padre di Mauro, ma un padre-ragazzo che stenta a riconoscersi come adulto benché lo sia anagraficamente. La lotta col padre è soprattutto questo: stentare ad accettare di assumere quel ruolo e a identificarsi nell’autorità, benché nella prassi Mauro sia un’autorevole punto di riferimento, soprattutto nella professione. La sua dedizione e la sua bravura come professionista è rischiarata dalla sua onesta umanità ,ma mai Mauro crede di vestire panni autoritari. Questo mi sembra un passaggio ribadito di continuo. Ed è una chiave di lettura non tanto del libro quanto (ma non dovrei essere io a dirlo) del costume sociale, di come siamo diventati. Le autorità precostituite sono crollate. Le icone sono a terra. Il piano orizzontale della vita laica si è allargato ed è zeppo di insidie. Questo siamo noi. E Mauro ha la stoffa del campione, non solo nello sport, per giocarsi questa partita. Ha ben chiaro nel cuore il desiderio di scavalcare ogni muro, e un’idea in testa di superamento.
«Ho cominciato subito ad almanaccare che in quel tu coincidono l’io dislocato del protagonista-narratore e il tu generico, in questo caso non impersonale ma che sta per tutti e per ognuno».
Il giovane protagonista Mauro è in viaggio in treno per la Francia, e sta leggendo un libro: si tratta del romanzo di Butor, La modification (1957), che il padre Gianni ha infilato nello zaino del figlio. È un romanzo scritto da un autore appartenente alla corrente letteraria del Nouveau Roman francese. Mi sembra che in qualche modo la tua scrittura sia profondamente influenzata e ripresa in modo originale – oltretutto tra il protagonista del romanzo di Butor e Mauro c’è un filo rosso… – da quel nuovo sguardo francese (tra gli anni Cinquanta e Sessanta) sul mondo, sui particolari: la camicia appesa, i denti, il topo guardingo, le minuzie degli oggetti e gli abissi dei soggetti. Cosa puoi dirci al riguardo e del tuo sguardo di scrittrice a partire anche dalle influenze cinematografiche?
Grazie dei bei riferimenti. Accetto volentieri la somiglianza con il Nouveau Roman, ma soprattutto devo ammettere che c’è una parte della cultura francese dentro cui mi sento a casa per ragioni personali e di esperienza. In effetti anche una certa suggestione jamesiana, sia nell’esplorazione di piani meno superficiali della coscienza (William James) sia di piani magici o sinistri, cioè della percezione di mondi nascosti (Henry James – i due erano fratelli!), posso dire che mi appartengono o perlomeno emergono dalle pieghe della narrazione.
Le ziette che si muovono convulse sono jamesiane (Henry) dal punto di vista del protagonista (che racconta quel quadretto nell’82), ma dal mio punto di vista di autrice sono lynchane (da David Lynch in Mulholland Drive, film del 2001). Significa che io e lui non coincidiamo in una stessa memoria di riferimento, abbiamo memorie indipendenti. Certo, tutto concorre ad alimentare le nostre descrizioni, i quadri che proiettiamo nelle nostre narrazioni. Del resto la letteratura aveva fatto già tutto – anche la simultaneità delle immagini in letteratura c’era già.
Non a caso chi scrive il cinema e di cinema, come farlo e scriverlo, si intende parecchio di letteratura.
In coda, visto che siamo finiti a parlare di cinema e letteratura, ho avuto la ventura di incrociare lo scrittore che in molte pellicole di David Lynch ha collaborato a scrivere il soggetto e poi la sceneggiatura: un vero “tough man”, che io ho potuto invece osservare in una fase di tenerezze con la sua compagna italiana di allora. La sua dualità mi ha ispirato molto – intanto subito l’ho infilato nella parte del romanzo precedente (Partite, Manni 2010), che si intitola Lucille (Due), troppo forte, ma il cinema di David Lynch, che amo, mi ha sempre ispirata, a prescindere.
«Nella bacheca accanto al menu c’è una locandina di appuntamenti letterari – Tè con l’Autore: ci sovrappongo subito l’immagine dei vassoi coi biscotti al burro assaggiati nelle case inglesi».
C’è tanta immagine, oltre che l’immaginario un po’ ossessivo di Mauro, pittura, cinema: che rapporto hai con l’immagine? E con la poesia?
Anche qui il rapporto è stretto. Semplicemente perché tutti noi abbiamo una corredo di immagini che ci guidano e ci aiutano a selezionare il caos che ci viene incontro e ci avvolge. Tutto il tessuto narrativo qui è costruito su somiglianze e similitudini più che su metafore.
Più che trovare dei bei quadri e costruire qualcosa di grazioso, qualche bel merletto di cui poi fregiarsi, io cerco sempre di fare un lavoro di associazione tra immagini, un escamotage – di nuovo – per moltiplicare le finestre e allargare il mondo, piuttosto che inchiodarlo a due o tre simboli e racchiudere tutto in un emblema per quanto estetico però angusto, anzi restringente. Seguire tutti i cerchi che si allargano nell’acqua è un inseguimento che può rivelarsi disperato ma se così non fosse non varrebbe la pena né scrivere né tantomeno leggere.
«Comincio a sentirmi come quel ragazzo che immaginava d’essere impastoiato in una fitta rete di fili invisibili tesi tra lui e la sua stanza e verso tutti gli oggetti in essa contenuti creando un sistema di legami complessi anche tra oggetti e stanza, […] Ma io in che modo mi lego a questi luoghi?»
L’ultimo racconto è splendido: il modo in cui l’interiorità di Mauro si giustappone al paesaggio, al micro-cosmo del treno e infine la spericolata corsa in taxi attraverso una Parigi descritta con precisione ologrammatica… Particolari che contengono tutto un ambiente, una antropologia dell’epifania. Il ratto che sguscia dal tombino, il clochard che attraversa calmo la strada, le zie americane un po’ alla Henry James nella conciergerie, apparizioni di cui si può intuire una storia sospesa, che ci attrae ma di cui non possiamo, non c’è tempo, sapere altro. Ma l’oltre lo intravediamo, il treno della scrittura corre, e arriva a quel finale sorprendente. Il treno della narrazione attraversa, attrae, luoghi reali e mentali. Cosa ti lega a quei luoghi e come hai lavorato per fotografare così bene il mondo?
“Quel luogo” – che poi non è Parigi, ma è una strada di Parigi soprattutto, un suo Carré, il quadrilatero degli antiquari – è significativamente un luogo che per i genitori di Mauro e per i loro coetanei per diverse ragioni sarebbe un paradiso. Per Mauro invece è un Purgatorio in cui a fatica lui tenta di orientarsi e di trovare qualcosa che gli appartenga, soprattutto che gli permetta di appartenere – qualcosa in cui identificarsi.
A lungo brancola, poi succede che chi meno lui si aspetta, si affaccia e lo strappa con delicatezza e con decisione all’indistinzione in cui il soggiorno parigino di Mauro rischiava di invischiarsi. Il romanzo, che segue e che inizia dall’ultima frase di questo ultimo racconto (ed è a sua volta, con un altro ambientato a New York, una costola del romanzo maggiore che cerco di scrivere da un bel po’), racconta come un innocente deragliamento da un programma definito, imposto a Mauro da suo padre con la forza del denaro e non solo, diventa per lui l’avventura fondamentale, l’occasione di prendere definitivamente possesso di se stesso, non solo con ingenue ribellioni all’autorità del padre, ma diventando prim’attore della propria vita. Perdendo quindi le piume del bel pulcino una volta per tutte e tornando alla civiltà veramente uomo.
A un certo punto sono tornata in quel quartiere con l’intento di fare un sopralluogo per raccogliere tutto ciò che potesse servirmi a ricostruire romanzescamente una certa strada e un certo ambiente culturale, musicale, artistico e così via. Ne è venuta fuori un’opera fotopoetica, Cartolina da Parigi, sette immagini su cui ho montato i versi, cioè il testo della cartolina, e in coda (poiché tutto ciò che scrivo non smette mai davvero di finire) ho messo una prosa finale, Segue Lettera (come diceva Achille Campanile in un suo noto aforisma, ricordato da Umberto Eco in una sua Bustina di Minerva: “Già nel 1962 l’immortale Achille Campanile aveva detto che mentre il telegiornale serale, rispetto al quotidiano del giorno dopo, era come un telegramma che si concludesse con ‘segue lettera’, il quotidiano del giorno dopo era una lettera che avrebbe dovuto concludersi con ‘segue telegramma’ – ma in verità avrebbe dovuto dire: ‘vedi telegramma già inviato’)”. Un’operina che poi ho anche esposto in mostra, riproducendo in formato gigante sia le foto con i versi inscritti che le due pagine della “lettera” (letteratura in mostra). In origine era un pieghevole, sorta di polittico foto-poetico-narrativo, realizzato su suggerimento della fotografa Sebastiana Papa. È lì che si è manifestata la camicia nella finestrella in alto e l’affaccio dal finto balcone sulla strada col cortile che ingabbia l’albero di parecchi piani. I cortili di Parigi sono gabbie protettive per gli alberi messi anche loro in riga e a regime dalla riforma urbanistica del burocrate Haussmann.
«Cou cou! Gentilhomme, s’il te plaît, regarde ici!» grida la ragazza dalla finestra di fronte alla stanza d’albergo in cui soggiorna Mauro e da qui uno scambio di battute in francese. Nei racconti c’è un riferimento a Jacques Lacan («[…] ho appena scoperto che secondo Jacques Lacan a livello del trauma la libido è superata dal linguaggio […]»), un altro racconto è un lungo dialogo con l’analista di Mauro. Tu sei insegnante di Lingua Inglese. Ecco, che lavoro hai fatto sulla lingua, tenendo presente la varietà dei registri linguistici? E, infine, che valore attribuisci al trauma del linguaggio: credi che la scrittura, che le parole, possano diluire in un ulteriore senso il non-senso della vita che spesso ci coglie e ci sfianca?
La lingua, più che uno strumento di espressione, è uno strumento di conoscenza. Conosciamo tutto linguisticamente. Se non fosse così, la letteratura non esisterebbe. Solo quando si fa parola la vita assume senso, ci comunica i suoi contenuti, ci dà il solenne incarico di rappresentarla nel mondo. Noi siamo gli agenti della vita. La parliamo quindi la conosciamo. Viverla non basta. Però, certo, intanto viverla, quindi esser vivi, è il grado zero su cui edificare tutto il resto.
La sensibilità – e dopotutto l’inclinazione di Mauro per le lingue e per i linguaggi – è la prova della sua percezione sempre accesa verso la vita. Vuol dire che sa immedesimarsi e far proprio ciò che proviene dagli altri, vuol dire che la sua attitudine è di profondo rispetto verso il sentire degli altri, vuol dire che inguaribilmente ascolta e osserva. Dopotutto la sua battaglia col dolore è una lotta a favore di altri verso i quali è capace di individuare diagnosi precise, e in difesa di un diritto umano sacro e inviolabile, il diritto a non soffrire, fin dove gli sia possibile alleviare le sofferenze se non prevenirle.
A proposito di quel passo che citi, mi fa piacere precisare che quel Cou-cou (pr.: cù-cù) proviene direttamente dalle Fiabe Sonore dei Fratelli Fabbri Editori, dalla fiaba dei Tre Porcellini, che dovevano difendersi dal Lupo e a un certo punto, ingenuamente, gli gridano: «Cù-cù, Lupo Cattivo, siamo quassù sull’albero di mele…». Un indelebile ricordo dell’infanzia. Ecco, nella mia scrittura ci sono essenzialmente due filoni: tutto ciò, molto, riguarda Mauro (questo è il mio filone sulla vita adulta), e la mia infanzia.
Questo è un domandone cui puoi anche non rispondere e che però nasce dalla curiosità di comprendere i luoghi e il corpo fuori, o accanto, alla scrittura.
Dove scrivi, quando scrivi, dove cammini quando ti riposi? In quale città o paese è nato il tuo ultimo libro, in che stanza, in che bar? Sei mancina o destrorsa? Passeggi? In bici, in auto, osservi alberi? Scruti cornicioni, affondi lo sguardo nel cielo, segui le onde del suono dell’acqua? Quali sono i rumori della città e quali i silenzi delle vaste campagne? Fumi? Bevi? Quanto pesi? Scrivi dopo cena, prima di pranzo? Quando? La tua è scrittura di spostamento, di stasi, di spazio, del corpo?
In genere scrivo al computer. Scrivo sempre in modo disordinato e in situazioni varie. Non ho rituali particolari. Ho scritto nell’ordine su una Olivetti lettera 32, poi sulla sua collega elettrica, poi ho avuto il mio primo portatile IBM, ora scrivo su due portatili, un tablet, lo smartphone – ma ho anche ripreso l’abitudine di scrivere in certi quadernetti dove annoto soprattutto versi e frasi o brani che mi sembrano epocali, poi vado a rileggere e trovo che sia tutto da correggere se non da trasformare completamente.
Ho un amico che scrive preferibilmente al bar o nei bistrot, io non ci riesco tanto. Però se mi ci metto mi piace pure. Non sono una abitudinaria. Devo sempre cambiare altrimenti mi stufo. Per riposarmi: se cammino vado al parco, oppure resto a casa e guardo le serie TV. Lavoro molto a casa (che è a Roma), ma poi i contenuti della scrittura mi portano nei posti più disparati. Ho uno studio, ma non sempre ci sto, comunque è una stanza molto accogliente, però se lavorassi sempre lì mi sembrerebbe di andare in ufficio. E poi la scrivania, che era di mio padre come la poltrona che ci sta davanti. Per anni ha scritto le sue escursioni in montagna e tutti gli itinerari. In genere sto in un soggiorno con una grande veranda, col televisore acceso in sottofondo, e mi conforta molto avere il giardino intorno. Soprattutto ho un tavolo enorme su cui mi spalmo: il tavolo naturalmente si chiama Eliot.
Ero mancina da piccola, ma le soavi suore a forza di schiaffetti mi hanno resa destrorsa. Questo la dice lunga: in fondo io sono ’na brava cristiana, malleabile, ma poi la ribellione sta nel fare come mi pare in assoluto.
Mi piace guidare, faccio lunghi viaggi in macchina, mi pare così di conquistare il territorio, come faceva Calamity Jane a cavallo. Faccio caso a molte cose: in genere mi attraggono non i primi o secondi o terzi piani del mondo che ho intorno, ma le pieghe nascoste, quelle che non interessano a nessuno. Non fumo. Mauro invece ha fumato in passato, un elemento di fascino in lui è stato per lungo tempo “come guarda e fuma”, come ho scritto in un poemetto tra quelli che gli ho dedicato in un libro di versi, Il luogo dell’appuntamento (Manni 2002) in cui è anche Cartolina da Parigi: ora fuma pochissimo, sempre in modo fascinoso.
Io no, non bevo quasi per nulla, invece Mauro è uno che ama bere bene e il vino lo produce pure. Sorvoliamo sul peso. Scrivo soprattutto nel pomeriggio fino all’ora di cena: quando posso la mattina prestissimo, ma spesso non posso. La mia è scrittura sicuramente di spostamento, nello spazio e nel tempo. Lei sì che è agile.
Intervista a cura di Gianluca Garrapa