Chi sono, questi, che scrivono di notte in luoghi che diventeranno poetici solo se un giorno avranno una scrivania dalla quale raccontare i loro inizi; che la notte prima di dormire immaginano cose che il mattino non trovano più e pensano: dovevo scriverle.
Chi sono, questi con lo sguardo perso a immaginare forme, colori, file indiane di lettere, richiamati da chi li vuole e li trova spesso assenti, e loro, più o meno lieti o tormentati, non riescono a smettere?
Il loro sguardo ha sempre fame e mai riposa. Si perdono in cieli disegnati dal volo delle rondini, nei colori dei sassi e i dialoghi della gente per strada, un gesto sul tram, un tipo di collo, in chiome di alberi e di donne, in un riflesso, un’intonazione, un’ombra.
Salgono a pelo sul proprio dolore e su quello degli altri – se mai fossero diversi – afferrano a mani nude le sue crini e lo cavalcano, rischiando di rompersi il collo prima di addomesticarlo.
Adulti raramente in ottima forma che hanno ancora l’infanzia viva che gioca a pallone da qualche parte; che giocano a nascondino senza sapere cosa stanno cercando o cosa dovrebbe raggiungere loro; che sono sempre in mezzo ad una caccia al tesoro.
Qualsiasi cosa compongano, somiglia loro come un figlio e come una sentenza: non potrai fare niente di diverso da ciò che sei. E questa diventa la loro firma e la disgrazia dei giorni in cui sono nauseati da se stessi.
Architetti delle dimore dove la nostra anima cerca rifugio e ristoro, risposte e scompiglio. Versi e prose come case dove tornare a dormire quando ci sentiamo lontani dalla fonte della nostra nostalgia, libri come stanze, come conversazioni al bar.
Tempeste musicali che spostano le nostre montagne, giocolieri di vibrazioni, compagni di strada capaci di calmare la bestia in noi o di resuscitarla e farla impazzire di gioia, di furia, di amore.
Alchimisti del colore e della forma che cerchiamo nei musei o troviamo per caso in un mercato, in una casa, e tra tutti – se siamo fortunati – qualcuno ci guarda negli occhi.
Guerrieri della materia grezza, le camminano intorno cercando la sua forma, chi liberando una presenza nascosta, chi materializzando un incontro con una porzione di invisibile che gli appartiene; tutti faticando, respirando polvere, sporcandosi le mani per donarci un incontro corpo a corpo. Corpo a corpo come si lottava si amava e si insegnava quando ancora si teneva presente che è in quello spazio tra i corpi che le cose accadono.
Sono gli Artisti. Sono loro queste mani, che lavorano come specchi dell’inquietudine, traduttori dell’anima che ci parlano ognuno in una lingua diversa e ci chiedono: così capisci? Dove capire non è sapere, ma qualcosa che succede dentro in un momento esatto, come quando il gettone cadeva giù nell’apparecchio del telefono (i più giovani potete cercare su Google, erano arancioni e sembravano serbatoi, per parlare si entrava in una cabina trasparente dove sono rimaste tutte le nostre storie di amore, fatte in parte di attese e gettoni) e attraversava quel punto dove iniziava il tono libero che ci avrebbe portato altrove, a incontrare qualcuno.
Riconosci quelli veri perché ognuno è come un’opera fatta a mano, con difetti, tratti, segni che li rendono unici, belli; sono liberi da convenevoli e lontani dalle massime. Coincidono nel benedire l’ispirazione quando arriva, ma dicono non basti. Sentono un fuoco che brucia in loro, e tremano di paura quando non ne sentono più il calore. Ma prima o poi torna a bruciare, grazie a chissà a quale soffio, e le loro mani tornano a fremere, e al mondo nascerà una nuova opera, come una confessione, per chi di noi avrà occhi per vedere e il coraggio per sentire, e solo il passare del tempo e degli uomini dirà quale sarà il loro destino. E allora sopportano l’invidia dei meschini, le critiche feroci, il fallimento sempre all’angolo, l’incertezza perché non sanno mai se quello che stanno mettendo al mondo avrà da dire qualcosa. Ma passerà il tempo, e tra centinaia o migliaia di anni le opere parleranno di loro e anche di noi, di questo istante che fu tutto nostro nell’infinito spazio e tempo, parleranno – come a noi i geroglifici – delle visioni degli amori e delle paure, dei misteri che toglievano il sonno a questi bipedi fragili e lenti che siamo, con l’anima radicata negli abissi roventi e lo sguardo e le braccia tesi verso il sole e tutte le altre stelle, e in mezzo il cuore, o dovunque nel corpo sia la sede dove fa strage il sentimento.
Mercedes Viola