Mattia Tarantino, giovanissimo (classe 2001) già alla sua seconda prova letteraria intitolata Fiori estinti (Terra d’ulivi Edizioni, 2019) trascina il lettore in un mondo onirico carico di visioni riempiendolo di significati “alt(r)i”, portandoci a vedere il mistero che si cela al di là delle cose. E’ un’autentica “lotta con gli angeli” dove l’io poetico si trova a perlustrare una zona oscura in cui l’individualità si perde. C’è qualcosa di più profondo da ricercare – la poesia di Tarantino è costante ricerca – oltre l’enigma del reale e l’irrazionale è la strada che conduce, in una visione mistica, a frammenti di conoscenza dove io e mondo si confondono. Si tratta di una poesia senza schermi fissi dove si ritrovano echi di Baudelaire, Rimbaud e Verlaine. La sensazione leggendo, è quella di un urlo contro la notte della coscienza, la sensazione è quella di assistere a un’imprecazione rivolta al destino dell’uomo, la sua condanna ad essere spettatore del disfacimento del proprio tempo. Scrive Giorgia Esposito nel suo bel commento a corredo della raccolta poetica: «L’urgenza del verso risponde ad un’altra urgenza: la perpetua ricerca di assoluzione, il grido scomposto e liberatorio che non può darsi nella preghiera intesa come atto pretenzioso che pre-vede risposta, bensì nella confessione, affinché «avvenga / la resa del cielo al nostro ultimo altare».
Silvia Castellani
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Sei giovanissimo ma hai già pubblicato due raccolte poetiche che hanno avuto un buon riscontro di critica. Quando hai iniziato a scrivere poesie e quali gli autori di riferimento?
Non ho mai iniziato a scrivere. Ho questa strana sorte di continuare ciò che non ho mai iniziato. Certamente, però, ci sono delle cause e delle casualità che mi hanno portato a riconoscere la scrittura come tale. Credo si trattasse, da bambino, di praticare una forma di vuoto nell’invisibile. Mi spiego: ricordo che scrissi alcuni versi per una bambina di cui ero innamorato. In questi versi tentavo disperatamente di invertire il ciclo delle stelle e di riordinarle per fargliene dono; sapendo, tuttavia, che quell’azione sarebbe stata, al contempo, vana e vacua non solo nei suoi effetti, ma in se stessa. Per quanto riguarda gli autori di ri-ferimento, invece, certamente c’è Dylan Thomas: nel tempo ha assunto le sembianze di un doppio, in me, di una figura siamese oscura e comica da cui è forse arrivato il momento di separarsi, almeno in parte.
Il poeta Mattia Tarantino che rapporto ha col ragazzo Mattia Tarantino?
Potrò rispondere bene a questa domanda quando capirò chi sia, effettivamente, Mattia Tarantino. Credo, però, che di lui mi interessi poco o nulla. Di certo so che la natura di questo rapporto è indissolubile e adiacente. Indissolubile perché non credo vi siano differenze tra loro dettate da questo rapporto, ma solo variazioni continue che appartengono a entrambi e che spesso non li fanno incastrare quanto, piuttosto, sovrapporre. Adiacente perché c’è sempre un elemento, in ognuno di loro, che acquista senso o, più propriamente, valore solamente differenziandosi dall’altro.
La figura della madre è ricorrente in Fiori estinti. Ce ne vorresti parlare?
Qualcuno mi ha detto che il poeta è un orfano della ninna–nanna. In Fiori estinti la madre è l’origine del conflitto: il suo principio e il suo comando. È accusata di aver tradito il patto per il quale avrebbe sempre dovuto accompagnarmi, accompagnarci, dalla veglia al sonno; dalla prontezza alla vulnerabilità.
Il linguaggio della tua poesia è a volte brutale, dotato di grandissima forza espressiva, tuttavia il lettore si ritrova spiazzato di fronte a questa veemenza straripante dai versi. Come è nata questa scelta e qual è il messaggio che vorresti arrivasse al lettore della tua silloge?
L’atto poetico è un atto di espropriazione. La lingua, tra le sue possibilità, è qui nell’uso – se intendiamo per uso la tensione polare tra lo stile (il dimenticarsi nel proprio) e la maniera (il presentirsi nell’improprio, nell’estraneo) -. In questo senso, possiamo identificare (à la Agamben) lo stile come disappropriazione appropriante e la maniera come appropriazione disappropriante: in entrambi i casi, queste categorie prevedono una tensione in cui i loro elementi sono aggrovigliati e a vicenda, per avverarsi, si annullano. La tensione, l’essere stesso della poesia è quindi attraversato da un nulla che, al contempo, lo costituisce. Di questa espropriazione sono evidenti alcuni segnali: i lapsus, le afasie, le balbuzie. Il segnale, e quindi l’elemento visibile dell’espropriazione, lascia intuire che l’atto poetico (questo nulla che porta alla luce un nulla) è l’espropriazione stessa della lingua: costituirla a sé come straniera; essere balbuzienti nel linguaggio annulla ogni comunicazione, ogni dialogo. Poiché nel dialogo gli elementi della lingua (a sua volta elemento costituivo dei poteri e loro terreno egemonico) coincidono necessariamente con quelli del potere.
La veemenza straripante dei miei versi, quindi, non è altro che un sistema di variazioni o balbettii che tenta di lasciarsi dire – dal nulla – il nulla. Sono una crepa; una contraddizione nella materia stessa; sia questa delle cose o del poetico.
Mi prometto, tuttavia, di approfondire la questione dell’atto poetico come atto di espropriazione in un articolo più approfondito. Cos’è il poeta se si costituisce come forma-di-vita al di fuori della proprietà? Se la lingua è uno degli inappropriabili e la povertà è il rapporto con l’inappropriabile, allora il poeta è ontologicamente povero? o la sua funzione non è del tutto collegata all’operare sulla lingua? Sono tante le domande che nascono da queste considerazioni e che meriterebbero di essere maggiormente analizzate o, quantomeno, semplicemente poste.
Ti ritieni un poeta sperimentale, ti ritrovi in una categoria poetica precisa oppure no?
Non ho mai compreso queste distinzioni; né quando mosse dalla critica né quando mosse dai poeti stessi. La maggior parte delle persone che hanno scritto sulla mia opera mi hanno definito un maledetto e, alle volte, forse esagerando e invitandomi a una dieta di soli narcisi, un Rimbaud italiano – soprattutto, credo, per la ricorrenza simbolica nella mia poesia e per la mia età. Tuttavia sono certo, per dirla con Cioran, che la maledizione sia un’elezione al contrario. Ma io non eleggo, non voto: al più mi voto a qualcosa. Mi vuoto.
Cosa significa essere poeta oggi?
Significa balbettare, rendere impossibile la stessa condizione di esistenza degli elementi del potere nel discorso. Significa operare sull’invisibile relegati all’invisibilità; rinunciare a ogni liturgia (nell’etimo di liturgheia, di opera pubblica) e privarsi, piuttosto, dello stesso privato – eredità visionaria e dispersa di Carmelo Bene – per poter finalmente praticare il nulla; dedicarsi al non–necessario (das Unnötige), unica mancanza che sempre sentiamo, perché nasce dal libero (Freien) e non dal bisogno (Not), a sua volta originato dalla costrizione (Zwang). Si tratta di instaurare una relazione con ciò che libera.
Quali, se già ne hai in cantiere, i prossimi progetti su cui lavorerai? Vuoi darcene una piccola anticipazione?
Ho concluso tempo fa una raccolta, che vedrà la luce probabilmente nei prossimi mesi. La annuncio qui, per la prima volta: si intitola L’età dell’uva ed è uno studio sui morti e sugli amanti; sul loro rapporto e sulle variazioni – o balbettii – di questo. Allego la prima e l’ultima poesia della raccolta; i due poli, i margini del campo di tensione; gli estremi della ricerca.
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Mattia Tarantino
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Mattia Tarantino è nato a Napoli nel 2001. Co-dirige Inverso – Giornale di poesia; collabora con YAWP – Giornale di letterature e filosofie e Menabò – Quadrimestrale internazionale di cultura poetica e letteraria; come traduttore con Iris News – Rivista internazionale di poesia. È presente in diverse riviste e antologie, italiane e internazionali. I suoi versi sono stati tradotti in sette lingue. Ha pubblicato Tra l’angelo e la sillaba (Terra d’ulivi, 2017) e Fiori estinti (Terra d’ulivi, 2019)