Sophie Laguna è una autrice dal talento straordinario quando deve manipolare tematiche vicinissime al mondo dell’infanzia e dell’adolescenza. Non è un caso infatti che alcuni suoi romanzi siano dei middlegrade e young adult. Ora l’autrice australiana torna in Italia, grazie al lavoro di Pessime Idee Edizioni, con il suo terzo romanzo per adulti The Choke. Dove il fiume si stringe, nella traduzione di Mariarosa Musco. Un altro importante tassello che permette di esplorare i fragili legami familiari che avvinghiano gli adulti e i più giovani.
Laguna scrive e lacera la pagina attraverso emozioni destabilizzanti, con ragionamenti e voli pindarici non lineari, perfettamente connessi al mondo di Justine, una bambina visceralmente legata alla natura, al paesaggio, al silenzio e allo sciabordio del fiume; calibra con classe la suspense letteraria e una narrazione dai tratti a volte di delicata brutalità.
Justine per colpa della dislessia non riesce a leggere, cresce coltivando paradossalmente una barriera comunicativa, aggravata dalla difficile situazione di suo nonno Pop – veterano della guerra del Vietnam che è assediato dai ricordi di quel tragico periodo. Intrappolato in un labirinto psichico, Pop passa metà della sua esistenza in un passato di sangue, mentre sua nipote vive in un status desolante.
La vita di Justine è sedimentata di delusioni e abbandoni. Per esempio, suo padre Ray trascorre la propria esistenza ignorando la prole e seducendo numerose donne. Da queste donne nascono anche i fratellastri di Justine, che la maltrattano in continuazione. Come se non bastasse, anche i vicini di casa della famiglia Worlley ci mettono del loro. L’unico modo per evadere da questa claustrofobia familiare e domestica è raggiungere Lo strozzo, il punto in cui le sponde del fiume Murray si sfiorano.
Pop informa i nipoti che Ray sta per tornare nei paraggi e, ovviamente, Justine cova una paura atavica per il genitore vagabondo. Nel frattempo si confronta con un nuovo compagno di banco, un ragazzo disabile ma estremamente intelligente, di nome Michael Hooper.
Michael è l’unica costante emotiva di Justine, una sicurezza che la protegge dal dolore eterno della sua famiglia spezzata.
Ray arriva e semina una tempesta, gioca con i sentimenti dei propri figli, li mette gli uni contro l’altri, rivede in Justine Donna, la madre della bambina.
Il romanzo si trasforma in manifesto femminista, denuncia di un meschino patriarcato, decostruzione lucidissima e intima del mondo occidentale formato da macro e micro abusi di genere. Ciò si manifesta ancora di più durante gli anni del liceo di Justine, dove prende coscienza del motto oraziano del Sapere Aude. Avere il coraggio di conoscere, di sapere.
Più le sponde del fiume si uniscono in una strozzatura idro-geografica più la mente e lo spirito di Justine si sentono soffocati, ma proprio nel dolore più grande si intravede uno spiraglio di libertà.
Con una caratterizzazione psicologica brutale e chirurgica Laguna dipinge un mondo violento e criminoso, ingiusto e politicamente scorretto, al quale si oppone soltanto il coraggio dell’autodeterminazione di una donna.
Così The Choke non è solo Lo strozzo, ma un vero fiume in piena di potenza narrativa impossibile da arginare e fermare.
Cristiano Saccoccia
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Kirk si rigirò la fionda tra le mani. «Questa ti farà male, Justine».
«Molto male» aggiunse Steve.
«Non ridere, sennò miro al buco».
Chiusi la bocca. Certi denti ci stavano mettendo un sacco a sbucare dalle gengive.
Kirk tese l’elastico. «Hai dieci secondi. Uno… due… tre… quattro… cinque…».
Scappai tra gli alberi mentre i numeri scemavano alle mie spalle. Mi misi a correre lungo il fiume, guardando un po’ avanti e un po’ la corrente. Poco dopo sentii Kirk e Steve che mi inseguivano. Mantenevamo sempre la stessa distanza: io non cercavo di scappare e loro non cercavano di raggiungermi. Sapevamo dove i rami si abbassavano a sfiorarci la faccia, dove le radici attraversavano il sentiero come corde e i tronchi caduti bloccavano il passaggio. Ci muovevamo nella foresta come nonno e Sandy in fuga dai giapponesi. Nonno non aveva mai capito a cos’era servita quella guerra. Perché un fiume di sangue? Perché così tanti ragazzi? Cosa scorreva nelle vene di quei bastardi?
Continuammo a correre senza fermarci: loro non erano il nemico e io non ero la preda. Il fiume ci scorreva accanto, fangoso e ingrossato, mangiandosi gli argini.
«Stiamo arrivando, Justine!» urlò Kirk.
Un giorno avrei avuto pronta una barca. Una zattera di rami legati coi cavi di traino di nonno. L’avrei nascosta all’inizio dello Strozzo, tra gli alberi mezzi sommersi dall’acqua.
Mi girai e vidi che Kirk era più vicino, così accelerai. Sentii una fitta dietro al ginocchio.
«Presa!» esclamò Kirk.
Mi girai e lui alzò la fionda. Continuai a correre. Sentii un’altra fitta sulla gamba. Diedi un urlo e i cacatua rosa volarono via dai rami, schiamazzando e strillando insieme a me. Mi girai di nuovo e vidi Kirk prendere un’altra pietra. Con la faccia che mi pulsava, mi fermai e afferrai una manciata di pietre e terra. Poi corsi verso di lui. «No!» gridai. «No!». I cacatua strillarono e fuggirono via dai rami in un’esplosione di chiazze bianche. Lanciai la terra e le pietre addosso a Kirk.
Lui diede un urlo e fece cadere la fionda, portandosi le mani agli occhi. Presi un’altra manciata di pietre mentre Kirk sputava terra e cercava di pulirsi la faccia. Poi si girò e abbandonò il sentiero vicino al fiume per precipitarsi tra gli alberi, verso i nostri rifugi. Steve lo seguì e io feci lo stesso.
Distrussero i rami del mio nascondiglio. Strapparono via le pareti di foglie e corteccia, il tetto di fronde e asciugamani, il comignolo di ramoscelli. Gli lanciai addosso pietre e terra, poi corsi verso il rifugio di Kirk e diedi un calcio alla cima del tronco, che cadde e si frantumò. Lui mi buttò a terra e si sedette sopra di me. Presi a scalciare e a dimenarmi, spingendo su e giù, torcendo la testa da una parte all’altra fino a vedere il cielo in pezzi: dalla terra al cielo, dalla terra al cielo, dalla terra al cielo.
Steve mi puntò in faccia il suo coltello tascabile. «È meglio se chiudi la bocca» disse. Gli sputai addosso.
«Bleah!» si pulì la guancia e allora liberai il braccio da sotto il peso di Kirk e gli feci cadere il coltello di mano. Cercò di afferrarmi le caviglie ma io scalciavo con troppa furia e lui non riusciva a tenerle ferme. Eravamo tutti rossi in faccia, avevamo il fiato corto mentre ci dimenavamo e lottavamo l’uno contro l’altro, come se fossimo in quella stessa guerra che avevano combattuto nonno e Sandy. Cosa ti scorreva nelle vene se perdevi, e per quale ragione?
Kirk mi bloccò le braccia con le ginocchia; non potevo fare altro che contorcermi come un verme sotto il peso del suo corpo. Presia spingere e a grugnirgli contro.
«Basta» disse. E all’improvviso, con la stessa velocità con cui avevamo cominciato, ci fermammo. Kirk alzò le mani in aria. «Tregua» proclamò, togliendosi di dosso e sedendosi a fianco a me.
Steve mi lasciò le caviglie e si mise a cercare il coltello tra le foglie: aveva soltanto una lama, piccola e consumata dalla ruggine, ma lui diceva che era stato papà a darglielo. Diceva che quel coltello poteva uccidere. Se lo portava ovunque. Mi misi a sedere e cominciammo a scrollarci la terra dai capelli, dalla faccia e da sotto i vestiti. Ci togliemmo le scarpe e le svuotammo dai sassolini. Mi sdraiai vicino a Steve, spalla a spalla.
Kirk rimase in piedi con le mani in tasca, a guardare all’insù. Gli eucalipti rossi pendevano gli uni verso gli altri quasi volessero toccarsi, proprio come le sponde del fiume allo Strozzo. Eravamo circondati dagli alberi e dai rami a forma di teste, facce intrappolate all’interno che premevano per guardare attraverso la corteccia. I nostri tre mondi erano uniti. Avevamo madri diverse ma condividevamo lo stesso cognome: Lee.