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Spade

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Su tutto l’onestà. Giovanni Gastel l’ho inventato io. Non è un vanto (anche), ma è per chiarire subito la situazione. Posso essere acritico, dunque, ma non tanto. Perché se editorialmente ho lanciato io, insieme a Vicki Satlow, il Giovanni Gastel scrittore, Giovanni Gastel ha avuto la forza di cambiare se stesso. E non è facile. Non è davvero facile. Non lo è per niente. Giovanni Gastel, nipote del grande fotografo Giovanni Gastel e pronipote di Luchino Visconti, ha trovato finalmente la sua unica e vera vena. Quella creativa. In un romanzo, “Spade”, che già dal titolo racconta tutto. Ma non proprio tutto. Quella che Giovanni Gastel ha affrontato sin da ragazzino, appena 17enne, è una fuga dalla realtà costellata da sbagli, abbagli, errori. Pur di fuggire dal proprio mondo ovattato – “fatto” di uomini impiccati a nodi regimental e donne in tailleur emotivo- Gastel ha fatto male a se stesso, pur di non far del male agli altri. Nell’altà società milanese  non esistono più cavalieri erranti, ma spesso soltanto cavalieri al lavoro. Gastel rifiuta questo mondo spesso velato da formalità, ipocrisie, vanità di vanità. Ha preso il proprio “cavallo” e l’ha trasformato in un “pusher”, ha galoppato tra i confini del più niente, tra i luoghi oscuri di una Milano da bere, ma che da bere voleva solo il sangue. Una società vampira. Una società ipocrita. Una società. Gastel ha preso il suo cavallo e da cavaliere errante ha combattuto non contro i Mulini a vento, ma contro il Mulino Bianco. Nel suo valore più simbolico di metafora di una società dominata da falsi valori a colori.
Gastelha deciso di cercare l’autodistruzione., Dai luoghi dorati e ovattati della sua infanzia ha affrontata la Milano più buia, più cupa: quella dei tossicomani, dei drogati, dei nascosti, degli ultimi, degli invisibili e degli invivibili. Ha perso l’ago della bilancia vedendo solo quella del bilancino. Ha iniziato a drogarsi pesantemente, a iniettarsi di tutto: dalla cocaina, all’eroina, al suo stesso sangue. Si è ridotto, lontano dalla famiglia, a chiedere l’elemosina in Stazione Centrale, pieno d’alcool, per dimenticare i suoi demoni di vetro: la bottiglia e le siringhe. Sino a drogarsi con trenta, 30, “spade” al giorno. 5 overdose, decine di comunità, di rehab per milionari, di rifugi da se stesso dai quali è sempre sfuggito per annientarsi. Sino alla rinascita: le sue vene sono diventate d’inchiostro e la magia della sua scrittura ci regala questo romanzo duro, violento, ma al tempo stesso poetico. Nulla a che fare con i vari “Trainspotting” alla Irvine Welsh (dove la droga è raccontata quasi come un fascino “cool”). In queste pagine niente è cool. Gastel ha conosciuto anche il manicomio di Montreal e ce lo racconta come un inferno stemperato dal Nulla. “Si andava tra le auto parcheggiate a iniettare il buio nel sangue. Sfiorare la morte dà sempre una vibrazione unica, gridavo al mondo sottraendomi alla vita”. Gastel si è ribellato dalla parte del silenzio. Fino a questo romanzo, che è un inno atroce alla vita. Un urlo disperato che atterrisce il lettore. Un libro che non lascia tracce, ma lividi. Un libro che non ha bisogno di trucchetti editoriali tipo “come stare lontani dalla droga”. Gastel lo racconta e il suo racconto è un regalo che fa a tutti i drogati e ai genitori dei figli con problemi di dipendenza. Non ha parole per loro, ma solo fatti. 
Leggete “Spade” perché è magistrale, un inno alla vita, un tunnel in cui il lettore e ne esce indebolito per tutto l’orrore della realtà che racconta, ma al tempo stesso più vivo di prima.
Ci fa ricordare quanto sia bello qualsiasi gesto quotidiano. Anche quelli che dimentichiamo. Come un respiro, un sorriso, un incontro, una rinascita, una Fenice.

 
Gian Paolo Serino  

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