È atteso per domani l’arrivo in libreria di Titanio, romanzo di Stefano Bonazzi pubblicato di Polidoro Editore. Ambientato nel quartiere periferico della Ciambella, luogo abitato da chi vive ai margini della città sopravvivendo grazie a espedienti e reati di ogni tipo, Titanio ha come protagonista Fran, un ragazzino di tredici anni, uno degli abitanti di un condominio cadente, che vive con i suoi genitori, coltivatori e venditori di marijuana. Fran – il cui racconto è riportato da un educatore – trova rifugio nei libri, oltre che nella compagnia di una ragazza che vive come lui nel quartiere, uniche due vie di fuga dalla “normalità” quotidiana della povertà, dell’emarginazione e del degrado. Quando lo zio Pietro, di ritorno dai suoi viaggi in Europa, ritorna nel quartiere, Fran ha rivelazione che sia possibile vivere un’altra vita, lontano dalla Ciambella. Purtroppo, come dice Bonazzi, “il male è semplice, la cosa più semplice del mondo”, e i sogni di evasione di Fran sono destinati a crollare schiacciati dal peso della “semplicità” del mondo. Un’imperdibile discesa nei meandri più oscuri e complessi dell’adolescenza e, in qualche modo, nelle radici del male.
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Il giorno del mio tredicesimo compleanno papà mi schiacciò una parrucca in testa. Bianca come la neve.
«Adesso sei una fatina» disse.
Ne aveva comprata una per ogni modello ai mercatini delle cose vecchie giù in città. Roba indossata dalle battone, puzzavano ancora di fumo e deodoranti economici. Le teneva in ordine per colore nell’armadio ma io non ho mai capito quale fosse il giorno giusto per indossarle. Avrei voluto farmi trovare pronto in quei momenti. Nei giorni della punizione.
I giorni della cantina.
Una volta là sotto trovai un libro di scienze.
C’era l’illustrazione di una mosca capace di deporre una larva dentro le sue prede. Dermatobia hominis. Quel parassita cresce dentro lo stomaco della vittima, se ne nutre e poi sale fino al cervello per convincerla a scavarsi la fossa.
Pensai che quella larva fosse un mostro.
I
Lame bianche ficcate in mezzo al cranio. C’è troppa luce. Gli occhi sono crateri induriti. Le pupille annaspano in cerca di un appiglio. Non c’è nulla oltre il riverbero. La realtà si è sciolta in una melma informe. Non riesce a muovere la testa. Prova un braccio, poi l’altro, per ultime le gambe. Niente. Non sente nulla. Tutto fermo. Il corpo non reagisce, o forse è bloccato da qualcosa.
Questo è il momento in cui dovrebbe cadere in preda al panico. Implorare aiuto, gridare fino a stracciare i polmoni. Non è normale svegliarsi in un posto sconosciuto, sopra un letto sconosciuto, dentro un corpo sconosciuto.
Non è normale.
Respira. Un soffio appena. Un rantolo.
Chiude gli occhi. Li riapre. Sempre quella luce addosso. I contorni sbiaditi. Il cielo è una massa di linee liquide. Gli occhi restano aperti, le pupille si contraggono, si dilatano. Il riverbero diminuisce, le linee si assottigliano, si uniscono, si fondono e dal bianco emergono contorni. Quadrati. Molti quadrati. Quadrati bianchi, quadrati uniti.
Il cielo è una scacchiera bianca.
Gli occhi tornano al centro della luce. Le pupille reggono il peso del bianco rabbioso. Ora può distinguere qualcosa. Non è un sole incandescente quello che gli sta cadendo addosso. È un neon lungo almeno un paio di metri.
La gola si contrae, un crepitio che porta ossigeno a un corpo che non riconosce. L’aria è una colata gelida che incendia e scuote le membra, giù, fino ai polmoni. Vorrebbe dire qualcosa. Prova a deglutire ma la sua bocca è una cava di sterpaglie. Adesso sente male, non capisce dove, forse è tutto il corpo che si risveglia o forse è solo nella sua testa, un naufragare smarrito. Gli sembra di affogare disperso in quel bagliore.
Vorrebbe urlare.
Altra aria in gola. È solo una roba fredda che non sa di nulla. Un sibilo e un rantolo, ecco tutto quello che è stato in grado di produrre.
Qualcuno ha sentito. Gli sembra di percepire dei rumori oltre la stanza.
Una porta si apre alle sue spalle. Uno scatto secco, seguito dal fruscio di una guaina che striscia su qualcosa di sintetico. Una sagoma si avvicina. Ha il passo lento, regolare.
La figura ora è accanto al suo letto. Ne intuisce appena le forme e i lunghi capelli. Sta cantando qualcosa, una canzoncina stonata e veloce. Sembra preoccupata. Sposta qualcosa di metallico in un punto che non può vedere.
«Sei sveglio».
È una voce gentile, priva di accenti, piacevole. Una voce di donna, forse una ragazza. Labbra e lingua si contraggono, vorrebbe dire qualcosa ma dalla sua gola non esce niente.
«Non devi fare sforzi. L’aria porta germi e i germi portano infezioni. Meglio se chiudi la bocca».
Le sue mani accanto. Il bordo di una busta che si strappa.
«Hai ustioni di quarto grado su tutto il corpo, è già un miracolo che tu sia sopravvissuto.
Riposa».
Un sottovuoto che cede e si contamina. Rumori metallici. Lo sgocciolio di una flebo.
«Ci vorrà molto tempo e pazienza prima che tu possa riprendere a parlare. Non avresti dovuto svegliarti ora. Non sei ancora fuori pericolo… è quasi un miracolo».
Indossa una mascherina chirurgica, di quelle grandi che arrivano fino al mento, non riesce a vedere altro. Mascherina e capelli lunghi. Il mondo è avvolto da una foschia incolore ma qualcosa ogni tanto riemerge dalla nebbia.
«Sei avvolto da bende sterili. È la procedura da seguire per questo tipo d’incidenti. Devi stare fermo. Sei come una mummia. Se ti muovi si strapperà qualcosa. Se si strappa qualcosa tu muori. Quindi non devi muoverti. Per nessun motivo al mondo».
Quella sconosciuta ha parlato di un incidente ma lui non sa nulla di nessun incidente. Sembra un’infermiera ma in quel posto non ci sono rumori d’ospedale.
Pensieri sbattuti nel cranio e dietro di loro solo una stanchezza infinita.
L’uomo si sente esausto, di uno sfinimento che pare il respiro ultimo del mondo. Ha aperto gli occhi. Non ha fatto altro.
«Ho dovuto siringarti più di venti litri di soluzione colloidale. Ustioni come le tue provocano la perdita di un’enorme quantità di liquidi. Ma ora devo toglierli. Venti litri sono tanti. Dovrò fare qualche incisione nell’addome. Farò piano. Non sentirai nulla. Ora chiudi gli occhi. Non è bello da vedere».
La donna si muove da una parte all’altra del suo letto. Incide la carne sfigurata. Il liquido gocciola fuori dalle escrescenze, fa un rumore di viscere liquefatte. Venti litri. Il corpo è circondato da ganci di ferro e lacci che arrivano fino al soffitto. Spuntano dai pochi frammenti di pelle scoperta. Vibrano come steli di bambù scossi dal vento.