Ronnie James Dio, Ian Gillan, Glenn Hughes, Ray Gillen, ma anche il troppo spesso sottovalutato Tony Martin: difficile immaginare che una simile parata di ugole d’oro si sia potuta alternare all’interno della stessa formazione. Invece, come ben sanno gli appassionati di hard rock ed heavy metal, è esattamente quello che è successo nel corso della lunga, indimenticabile carriera dei Black Sabbath, durante la quale ognuno di questi straordinari cantanti ha avuto l’onore e l’onere di accomodarsi dietro l’asta del microfono di quello che è, senza alcun dubbio, il gruppo più seminale nella storia della musica “pesante” (e forse non solo).
Eppure, nonostante questa fortunata, irripetibile alternanza di fenomeni all’interno della loro line up, a nessuno, probabilmente neanche al fan più open minded dell’universo, verrebbe da immaginare i Sabbath senza il loro frontman originale (e per eccellenza), Ozzy Osbourne, le cui doti canore (per quanto tecnicamente imparagonabili a quelle dei sopracitati colleghi), unite a una presenza scenica inimitabile e a una capacità di simboleggiare come pochi il lato più selvaggio del rock and roll way of life, lo hanno reso, a livello di coscienza collettiva, un pilastro comunque inamovibile del combo di Birmingham anche in absentia nel corso del lungo ventennio di separazione. Merito, ovviamente, dei primi otto album incisi da Toni Iommi e soci tra il 1970 e il 1978, quelli sui quali si basa – in particolar modo per quanto riguarda i primi cinque- la militanza e il senso di appartenenza all’heavy metal di milioni e milioni di ragazzi sparsi davvero in ogni angolo del globo.
Proprio a questo periodo aureo è dedicato “Black Sabbath. Masters of Reality. Dischi, musica e testi dell’era Ozzy” di Stefano Cerati (Tsunami Edizioni, 2023, pp. 245, € 18) che è tornato in libreria dopo 11 anni in una nuova edizione ampliata e aggiornata in seguito alla reunion dei “maestri dell’oscurità” e all’uscita delle nuove releases “13” e “The end”, ad oggi ultima sortita discografica del quartetto, che sembra aver interrotto definitivamente la sua attività dopo il concerto di Birmingham del 4 febbraio 2017. Come nella sua prima veste, il libro contiene una rapida analisi musicale e testuale ma non per questo poco approfondita di tutti i pezzi dei Sabbath, a partire dall’oscuro poema che apre l’esordio “Black Sabbath” fino a “Swinging the chain”, ultima traccia di “Never say die”, alla quale si uniscono quella di ogni singolo brano contenuto nei due dischi summenzionati e di alcune bonus tracks scritte sia nel primo periodo che dopo la reunion del 1997, nonché due lunghe e interessanti interviste fatte dall’autore a Toni Iommi e al batterista Bill Ward.
Il risultato è una full immersion appassionante nel mondo dei creatori di “War Pigs” e “Paranoid”, che, se non dà troppo conto delle spericolate vicende biografiche dell’epoca di riferimento, nondimeno si dimostra invece assai accurato nello sviscerare le peculiarità di ogni singola sortita su supporto dei Nostri, facendo luce sulla loro costante capacità di rinnovarsi in termini compositivi (e in barba al presunto immobilismo di cui spesso si sono arrischiati a tacciarli certi -sprovveduti a dir poco- detrattori), ma anche in termini lirici. Ed è quest’ultimo forse l’aspetto più interessante del volume, che ci restituisce i Sabbath (in particolar modo il loro autore di penna più prolifico, il bassista Geezer Butler) nella loro complessa complessità speculativa, che non si limita certo alle “materie oscure” di cui -diciamolo, con una certa persistenza nell’equivoco- vengono ritenuti dei sommi sacerdoti, ma spazia invece intorno ad una gamma di argomenti, d’attualità e di fantasia, davvero molto vasta e trattata spesso con una non banale arguzia. Non manca poi un’interessante aneddotica sul making of di alcuni loro capolavori, né una brillante confutazione di tutta una serie di luoghi comuni germinata (è proprio il caso di dire) intorno a certi testi “sacri” della band, andando a comporre un prontuario agile quanto utile per orientarsi all’interno della vasta e composita produzione della scatenata combriccola di ragazzi inglesi trasformatasi nel corso di poco tempo (e confermatasi poi nei decenni a venire) nell’insostituibile baluardo a sette note sul quale si è forgiata la gioventù e la maturità di ascolto di tanti, fedelissimi appassionati.
Tra cui, ovviamente, quelle di chi vi scrive.
Vivranno per sempre!
Domenico Paris