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Steven Millhauser. La notte dell’incanto

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Ammetto candidamente di non conoscere Steven Millhauser.

O almeno non lo avevo mai sentito nominare prima di avere tra le mani La notte dell’incanto, edito da Mondadori e tradotto da Sonia Folin.

Ho letto, per questo, il libro da impreparato e forse è il modo migliore per darne un giudizio.

Non hai i condizionamenti di opere precedenti a fare da ingombrante paragone, né opinioni sull’uomo che possano dare una particolare luce alla pagina. Mi sono mosso come dentro una stanza buia, allungando le mani, ascoltando i rumori, orientandomi con i sensi e non con la memoria.

Dopo, ho scoperto che Steven Millhauser è un autore famosissimo in America, vincitore di un Pulitzer in patria e di un Prix Médicis in Francia, ma all’inizio – come dicevo – questo per me era solo un libro molto sottile, centotrentacinque pagine divise in capitoli brevi, scritti con frasi semplici. Tutto avviene in una notte estiva, in una di quelle cittadine d’America che solo negli stati del Sud sembrano esistere. Ci sono larghe strade, un bosco, una biblioteca e case con le verande e le zanzariere. Ville molto grandi, di legno, abitate da persone sole che non riescono a dormire. Alloggi poco protetti, con le finestre socchiuse e le porte sul retro.

In questa notte prendono vita storie effimere, ordinarie, miracolose e brevi come vite di farfalle che si liberano dal bozzolo, prendono a volare e poi spirano in poche ore.

Ci saranno manichini in libertà, giocattoli che prendono vita ed esseri umani in perenne attesa di qualcosa che questa notte potrebbe loro regalare.

C’è Haverstraw, tra loro, che vive con sua mamma, alla soglia dei quarant’anni e sta scrivendo il grande libro della sua vita. Non lo finirà mai, lui lo sa e lo sa anche la signora Kasco, una donna di vent’anni più anziana, madre di un amico che non compare. Haverstraw e la signora Kasco intrattengono da anni una relazione che si nutre di desideri reciproci, sospesi e mai consumati che si tramutano in tenerezza infinita. Si vedono solo di notte, perché Haverstraw ha un ritmo circadiano allineato alla sua pigrizia. Arriva sempre intorno all’una e lei lo aspetta, perché questo eterno ragazzone che straparla e a lei confida ogni sua frustrazione intellettuale è qualcosa di più di un uomo, è un’occasione persa, l’incarnazione – anzi – di tutte quelle occasioni sfumate per scarsa intraprendenza che la donna ha tramutato in melancolia.

C’è poi, tra questi abitanti falena, una banda di ragazze. Adolescenti mascherate che entrano in casa d’altri e prendono piccoli oggetti, si siedono sui divani e scrivono, prima di andare via: NOI SIAMO LE VOSTRE FIGLIE.

Si direbbe che rubino, ma non è vero. Sono solo segni di un passaggio veloce, tracce del tempo trascorso in un rifugio temporaneo.

Ma queste sono solo alcune delle vite che Steven Millhauser sembra abbozzare su carta di riso. Esistenza, quella di questi personaggi, di cui non ci si accorge perché, come il poeta Robert Frost, di due sentieri nel bosco hanno tutti preso il meno battuto e questo, ha fatto tutta la differenza.

Eppure, mi pare di capire che in questa notte fatata, la vera protagonista sia quella Luna che funge da riserva sostanziale d’assoluto.

La Luna è una divinità invocata a coprire di meraviglia vite disperatamente ordinarie.

Pierangelo Consoli

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Steven Millhauser, La notte dell’incanto, Mondadori, 2022, Pp. 144, euro 17,50

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