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Storia del Black cinema. Intervista a Rosario Gallone

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Rosario Gallone viene folgorato sulla via di Damasco (forse dell’Excelsior, perché non c’era un cinema Damasco) alla tenera età di tre anni. Riconosceva i manifesti dei film in programmazione prima ancora di impararne a leggere il titolo. Di lì la formazione da cinefago è proseguita grazie ai cicli del lunedì sera di RaiUno e quelli presentati da Claudio G. Fava, realizzati da Callisto Cosulich sulla RaiDue degli anni ’70. Nei mesi estivi l’intera famiglia (nonni, zii e zie, prozie) era costretta a fare a turno affinché ogni giorno potesse assistere a una delle proiezioni (se non a entrambe) dei due cinema di Lacco Ameno, località di villeggiatura, nell’isola di Ischia, tanto amata dal produttore Rizzoli (altro segno del destino?) negli anni ’50, tanto da stabilircisi per lunghi periodi nella nota Villa Arbusto. Una volta laureatosi in Giurisprudenza, capisce di non voler in nessun modo esercitare la professione di avvocato e contribuisce alla creazione della prima Mediateca comunale di Napoli grazie alla sua collezione di VHS originali e registrate. Con alcuni amici, appassionati come lui – no, forse “come” non è possibile -, fonda nel 2000 la prima scuola di cinema del Sud Italia, la Pigrecoemme, con cui ancora oggi contribuisce alla formazione delle nuove leve e della nuova forza lavoro del comparto audiovisivo italiano. Alla sua attività formativa ha affiancato la scrittura per riviste (Nocturno, Zeusi), la partecipazione a diversi saggi collettivi, un podcast, Decisione critica, in cui intervista il gotha della critica italiana, l’organizzazione di rassegne cinematografiche. Scrive periodicamente per la rivista mensile Nocturno.

Mario Schiavone

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Sei un cinefilo che vive la magia del cinema a tutto tondo: fondatore di una scuola di cinema tra le migliori in Italia, (e probabilmente la più riconosciuta in tutto il sud Italia), insegnante di sceneggiatura, saggista con libri all’attivo e anche critico di cinema per riviste di settore. Quanto hai lavorato, fin da piccolo, per alimentare questa tua passione e riuscire a farla diventare un lavoro riconosciuto e apprezzato da grandi professionisti dell’arte visiva?
In realtà credo di non aver mai lavorato. Perlomeno non fin da piccolo, quando ho alimentato la passione in maniera molto spontanea e grazie a una famiglia che mi ha appoggiato accompagnandomi spesso al cinema, permettendomi di vedere di tutto (anche le cose vietate purché in compagnia loro: il vero antidoto a ogni forma di censura). Da adulto, e una volta avviata la scuola di cinema, ho sempre voluto che la nostra fosse (e fosse percepita) come struttura seria e non come specchietto per le allodole con cui ingannare dei ragazzi con un sogno, ragion per cui il lavoro è consistito nel mantenersi al passo coi tempi, intercettare le tendenze, i progressi tecnici, ma la passione ha continuato ad alimentarsi da sola. E meno male.

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Quando pensi alle storie per il cinema, da analizzare o da scrivere, quanta vita vissuta sottrai dal tuo sguardo e a quanta drammaturgia filmica ti rifai elaborando il tuo sguardo?
Il mio problema è che gran parte della mia vita vissuta è fatta di immagini viste, fagocitate, metabolizzate e difficilmente espulse. Sento sempre di aver vissuto un po’ come Salvatore di Vita, il protagonista di Nuovo Cinema Paradiso, o come Tarantino, benché in paesi e contesti diversi. Tuttavia, credo che in questa sorta di postmoderno prolungato, che sconfina nel post cinema, la cinefagia sia alla base dell’analisi del testo filmico. Senza, non riesci a interpretare la grandezza di Joker: Folie à deux che, infatti, si è scontrato con il più grande fraintendimento recente. È ovvio che tutto questo rischia di ridurre il cinema a mero gioco cerebrale (e spesso lo è), ma se ci si sta attenti, tra le pieghe dei fotogrammi spesso si trova, non la realtà (perché il cinema, anche quello del reale, non è mai realtà, al massimo una sua rappresentazione abbastanza fedele), ma la verità, quella sì.

Ammesso che esista – concretamente – una definizione utile di artigianato cinematografico, inteso come gesto del pensare (e fare) un racconto per immagini in modo professionale, cosa consiglieresti agli allievi che vogliono iscriversi per la prima volta alla tua scuola di cinema e fotografia Pigrecoemme?
Noi siamo chiari con i nostri allievi fin dall’inizio e alla lunga questa chiarezza ha pagato: noi possiamo insegnare il mestiere del cinema. L’arte, per quanto mi riguarda, non si può insegnare, dipende dai sentimenti, dalle istanze che ciascuno si porta dentro. Però, col mestiere in tanti lavorano, non necessariamente in qualità di registi. Quando Nicola Guaglianone ha tenuto un workshop la prima volta presso di noi, senza che ci fossimo messi d’accordo, ha detto esattamente la stessa cosa: che per lui, quello dello sceneggiatore, è un mestiere.

La Pigrecoemme esiste dal 1999, ti andrebbe di raccontarci i principali traguardi raggiunti e le meravigliose soddisfazioni ottenute in tutti questi anni in Italia e all’estero?
Pigrecoemme è stata citata dall’Eurispes, l’Istituto di ricerca degli italiani, come uno dei più accreditati centri di formazione sull’audiovisivo in un suo rapporto del 2004, dal titolo: I fabbisogni formativi nel settore dell’audiovisivo. Abbiamo lavorato con Enti pubblici, privati, gli Istituti di lingua straniera di Napoli (il Grenoble, il Goethe e il Cervantes). Abbiamo coprodotto alcuni documentari di un certo spessore (Midnight Bingo di Antonio Longo, nostro ex allievo, ha vinto il Napoli Film Festival; Un consiglio a Dio di Sandro Dionisio è stato proiettato a Bellaria e al Nuovo Sacher di Nanni Moretti; Flavioh!, l’unico documentario mai realizzato sulla vita e la carriera di Flavio Bucci, per la regia di Riccardo Zinna, è stato alla Festa del cinema di Roma), ma le più grandi soddisfazioni sono quelle che proviamo ogni volta che leggendo i titoli di coda di un film, di una serie, di una fiction, riconosciamo i nomi dei nostri ex allievi che abbiamo avviato alla carriera. Ormai ci sono reparti di regia e produzione di alcuni set interamente composti da nostri ex allievi. Senza contare Giovanni Dota che è arrivato a dirigere il suo secondo film (La scommessa – Una notte in corsia), Vincenzo Soprano, montatore di Ti mangio il cuore di Pippo Mezzapesa e di due episodi di Avetrana – Qui non è Hollywood! o Michele Rosiello, tra gli attori maggiormente presenti nelle serie tv italiane degli ultimi anni.

Che rapporto hai con i fumetti? E se coltivi questa passione, quali sono i tuoi autori preferiti di questo medium narrativo?
Sono stato da piccolo un lettore di fumetti Marvel, quelli dell’Editoriale Corno, poi da giovane adulto sono stato conquistato dalla Bonelli di Dylan Dog e Nathan Never, ma non posso dire di essere un esperto. Di sicuro compro Topolino praticamente da 50 anni, anche se negli ultimi anni non lo leggo più per questioni di tempo e ho tutti gli albi di Julia per cui potrei sicuramente indicare Giancarlo Berardi tra i miei autori preferiti.

Ogni docente aspira ad un allievo ideale. O forse no. Per te esiste? Se sì, il tuo studente – e cinefilo ideale – come affina il suo sguardo e come allena il suo tentativo di indagare il mondo a caccia di immagini e storie?
L’allievo ideale forse non esiste. Credo che, quello del formatore o educatore, sia un lavoro che deve aspirare alla sua scomparsa. Intendo dire: se sono un buon formatore, a un certo punto l’allievo non avrà più bisogno di me. Una qualità imprescindibile, per apprendere qualsiasi cosa, è sicuramente la curiosità. Senza, è difficile cibarsi di conoscenza. Dopo la curiosità, quello che io cerco di trasmettere ai ragazzi, specie per quel che concerne l’analisi del testo filmico, è il cambio di prospettiva, il non uniformarsi a uno sguardo unico, di solito calato dall’alto.

Come impieghi il tempo quotidiano dedicato alle letture narrative e alle visioni cinematografiche per te formative?
Odio viaggiare in auto perché mi impedisce di leggere. Il treno, pertanto, è il mezzo di trasporto ideale. Ora sul treno sarebbe possibile anche vedere prodotti audiovisivi, ma è più facile che legga. Alle visioni cerco sempre di dedicare gran parte del mio tempo, sia in sala che a casa, ma non è sempre possibile per gli impegni professionali e no. Tuttavia, sebbene non possa fisiologicamente mantenere la media di quando ero studente universitario, mi difendo bene.

Nel tuo ben curato, approfondito e appassionato saggio “Storia del black cinema” (Martin Eden 2024) hai osservato corpi, forme e vite della gente afroamericana (fuori e dentro il cinema, dentro e attorno alla società civile, dall’alto e dal basso di ogni accadimento storico). Un mondo che evoca storie, contraddizioni, battaglie politiche e tanta tanta arte messa in campo ad ogni costo, nonostante tutti i problemi vissuti in prima persona nei secoli da gente comune e artisti di quella comunità. Come e quanto hai lavorato a questo prezioso libro?
Potrei dire che ci lavoravo da una vita, ma non sarebbe vero. Si tratta di un argomento che mi ha sempre interessato, una delle mie ossessioni cinematografiche e, qualche anno fa, tenni anche un seminario on line sull’argomento. Il fatto è che non sono uno che scrive e poi cerca un editore, ho bisogno di scadenze, altrimenti ci sarà sempre qualcosa che ha la priorità. Per cui quando la Martin Eden ha accettato la mia proposta e mi ha dato una deadline di consegna, ho cominciato a lavorarci e, dopo cinque mesi di immersione totale nel mondo, nella cultura, nel cinema e nella letteratura afroamericani, il libro è stato consegnato. Sembra poco, molti si sorprendono, ma io sono fatto così. Se mi danno una scadenza, io la rispetto, il tempo me lo gestisco.

Stai lavorando a nuovi saggi di cinema? Se sì, puoi anticiparci qualcosa a proposito dei temi trattati?
Avrei voluto lanciarmi in un altro progetto storico-critico su un genere cinematografica (“la storia del cinema…), ma è molto assorbente e non credo di poterlo fare. Quindi ripiegherò su una monografia di un autore per nulla storicizzato. Nel frattempo, però, due miei brevi saggi sono nel libro “Marco bellocchio – Il pubblico e il privato” a cura di Roberto Lasagna, uscito per i tipi di Il Foglio Letterario.

A mio avviso non sei solo un apprezzato e riconosciuto intellettuale napoletano, ma anche un Maestro del fare-raccontare-diffondere cinema. Perché da anni ti osservo nel tuo percorso: accompagni giovani e meno giovani ad apprendere un modo di raccontare storie, a trovare una sensata postura artistica, a scoprire un modo concreto di fare ciò che si ama con umiltà e competenza. Ti andrebbe di raccontarci chi sono stati i tuoi maestri di riferimento e cosa immagini per i futuri artisti che stai formando?
Non ti nascondo che, pur essendo il mio recondito desiderio quello di lasciare un segno ed essere un mentore, non ne ho avuti io. Perlomeno non tra i docenti delle mie carriere scolastiche. Però, sicuramente, sentirmi dire da Valerio Caprara, delle cui recensioni mi nutrivo da adolescente, “diamoci del tu”, è stata une delle soddisfazioni più grandi della mia vita. Non so se mi si possa definire intellettuale, tanto meno se davvero mi si riconosca davvero in quel senso, ma sul trasmettere il modo di fare e raccontare cinema, forse sì, immodestamente credo di saperci fare.

In fondo, alla fine della corsa del vivere quotidiano, tu perché fai cinema?
Come diceva Hitchcock “il cinema è la vita senza le parti noiose” e io non ho mai voluto annoiarmi.

Rosario Gallone viene folgorato sulla via di Damasco (forse dell’Excelsior, perché non c’era un cinema Damasco) alla tenera età di tre anni. Riconosceva i manifesti dei film in programmazione prima ancora di impararne a leggere il titolo. Di lì la formazione da cinefago è proseguita grazie ai cicli del lunedì sera di RaiUno e quelli presentati da Claudio G. Fava, realizzati da Callisto Cosulich sulla RaiDue degli anni ’70. Nei mesi estivi l’intera famiglia (nonni, zii e zie, prozie) era costretta a fare a turno affinché ogni giorno potesse assistere a una delle proiezioni (se non a entrambe) dei due cinema di Lacco Ameno, località di villeggiatura, nell’isola di Ischia, tanto amata dal produttore Rizzoli (altro segno del destino?) negli anni ’50, tanto da stabilircisi per lunghi periodi nella nota Villa Arbusto. Una volta laureatosi in Giurisprudenza, capisce di non voler in nessun modo esercitare la professione di avvocato e contribuisce alla creazione della prima Mediateca comunale di Napoli grazie alla sua collezione di VHS originali e registrate. Con alcuni amici, appassionati come lui – no, forse “come” non è possibile -, fonda nel 2000 la prima scuola di cinema del Sud Italia, la Pigrecoemme, con cui ancora oggi contribuisce alla formazione delle nuove leve e della nuova forza lavoro del comparto audiovisivo italiano. Alla sua attività formativa ha affiancato la scrittura per riviste (Nocturno, Zeusi), la partecipazione a diversi saggi collettivi, un podcast, Decisione critica, in cui intervista il gotha della critica italiana, l’organizzazione di rassegne cinematografiche.

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Rosario Gallone è autore di:

Prigionieri dell’Oceania. Il riscatto postmoderno del cinema degli antipodi (in Cinema 2001. E dopo l’odissea? Viaggio nel filmico contemporaneo tra postmodern e postmortem, Quaderni della Mediateca S. Sofia, Vol. 1, Napoli, 2002);

Rock e Mock. Quando il gioco si fa duro, l’immagine comica del rock nel cinema e nella televisione (in Rock around the screen, a cura di D. Del Pozzo e V. Esposito, Liguori, Napoli, 2009);

C’era una volta il Westworld (in Nel labirinto di Westworld, a cura di M. Berardini, Intrecci Edizioni, Roma, 2018);

Beyond the Borders – Lo sconfinamento nel cinema: inquadratura, formato, genere (in Zeusi – Sul confine, numero doppio – 5 e 6 – Accademia di Belle Arti di Napoli, 2018)

Russian Doll (in L’arrivo del lupo – Netflix e la nuova tv a cura di Matteo Berardini, Intrecci Edizioni, Roma, 2019);

Campus e Controcampus. La dialettica degli spazi nel cinema di ambientazione accademica (in Across the University.Linguaggi narrazioni rappresentazioni del mondo accademico, a cura di J. Altmanova, L. Cannavacciuolo, M. Ottaiano e K. E. Russo, Editoriale Scientifica, Napoli, 2020);

Storia del Black Cinema – Dalle origini a oggi (Martin Eden, Napoli 2024).

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