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Su Franco Fortini

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Più o meno dall’inizio del XXI secolo, dilaga in Italia un populismo narrativo che sembra la parodia semianalfabeta di quello culminato lungo gli anni Cinquanta nel “Metello” di Pratolini. E i suoi alfieri recitano un engagement spudoratamente pubblicitario. Lo Scrittore, o meglio la sua icona mediatica, interviene a getto continuo su temi d’attualità sui quali non ha da dire nulla più di un qualunque cittadino. Si verifica una strage, lo chiama un giornale: e lui, o lei, pur non avendo in proposito idee illuminanti, non conoscendo bene il contesto dei fatti e non scontando i duri obblighi dei redattori, accetta comunque di commentare. Risultato: una demagogia perdonabile a un politico, non a chi dovrebbe porre il suo onore in un’opera che non implica la richiesta del consenso. Nel cedimento a questa lusinga sta il vero patto col diavolo: cioè il tradimento del preteso impegno civile, l’accettazione di un “ruolo” corporativo e di una visibilità a cui non corrisponde nessuna reale “funzione”. Peggio poi se lo Scrittore si finge una voce clamante nel deserto quando ha un microfono potentissimo.

L’immagine è di Franco Fortini, e riassume una sua utile lezione sui rapporti tra politica e cultura. Il più originale marxista critico italiano denunciò infatti questo teatro tribunizio di cartapesta fin dal boom; e così incarnò la cattiva coscienza di chi (Vittorini, Pasolini) pretendeva che nella società dei mass media fosse ancora valido il mandato romantico con cui si delegava allo scrittore-intellettuale la rappresentanza dei sentimenti collettivi. Da oltre un decennio, sostenne Fortini in quel “Verifica dei poteri” che nel ‘65 anticipò le istanze della nuova sinistra, “molti critici militanti credevano ancora di correre con la maglia del marxismo e dello spiritualismo cattolico e non sapevano di aver già stampato, sulla schiena, il nome di una ditta di tubolari della cultura o di dentifrici letterari”.

Per evitare la mistificazione della “andata al popolo”, Fortini si forgiò allora uno stile innaturale, allegorico, plumbeo. Da poeta, calò i riferimenti al presente nelle forme morte di un manierismo allucinato; e nei saggi costruì un’oratoria sospesa tra lapidarietà didattica e allusioni cifrate a un orizzonte di senso circoscrivibile solo in negativo, con metafore un po’ adorniane e un po’ paoline. Se dovessi dare un’idea delle liriche attraverso due soli versi, sceglierei “E tutto ancora farà male, madre” e “Non è vero che non siamo stati felici”: da una parte una clausola della stagione estrema, scolpita, allitterante, in cui spiccano il cupo motivo biologico e le doti epigrammatiche che su un diverso registro fecero di Fortini un abile copywriter; dall’altra un incipit della maturità in cui l’autore s’inibisce la musica nel verso-frase, ma al tempo stesso abbandona la mutria da profeta e si arrende alla vita. Per rappresentare il saggista citerei invece un brano quasi sconosciuto su Paolina Leopardi dove si esprime al meglio la rivendicazione di fondo che muove la critica fortiniana, nata sia dall’insofferenza per la Firenze estetizzante della giovinezza sia da un’antica ferita famigliare, la ferita di una piccola borghesia esclusa dai lussi che la sua educazione le avrebbe permesso di gustare, e insieme condannata a sentire come colpevoli i precari privilegi che la separavano dai ceti più poveri.

Per noi Paolina “ha una sua fuggevole consistenza (…) solo se ci aiuta a meglio decifrare le parole sublimi passate nella mente del ragazzo che giocava con lei quando nessuno dei due sapeva ancora sospettare il proprio destino biologico”, osserva Fortini; e dichiara il suo cristiano orrore per una cultura che vede nell’arte, o in altra attività pubblica, una giustificazione della vita, e che su questa base considera le esistenze di alcuni uomini d’eccezione “più uguali”, più degne di indagine. Non si tratta ovviamente di eludere l’unicità di Giacomo o di rinunciare alle fonti, ma di avvertire la mostruosa naturalezza con cui dimentichiamo – oltre al legame tra certi studi e il dominio di classe – che tutte le vite esigono di essere comprese con la stessa attenzione, rinnegando così proprio la promessa redentrice della grande arte. “Chi non sente lo scandalo di una cultura organizzata su questo uso del genere umano”, scrive Fortini, “cioè chi non avverte la necessità di mantenere sempre vivo e attivo ‘l’orrore per la ineguaglianza, non già dei destini, ma dei criteri e livelli della loro interpretazione’, costui nega a tal punto la poesia di Leopardi (o la poesia in generale) che nessuna strenua filologia potrà mai veramente aiutarlo. ‘Compassione per tutti quelli ch’io vedeva non avrebbero avuta fama’ (‘Ricordi d’infanzia e di adolescenza’). Fama non può voler dire che memoria nella giustizia”.

Trovò Fortini la sua giustizia? Certo più di altri uomini, in quanto letterato; ma tra i letterati del nostro Novecento, meno di quasi tutti. Ebbe molti difetti, eppure oggi a nuocergli è un suo pregio: è questa denuncia che i nostri scrittori ‘impegnati’, e gli organizzatori di un sistema culturale insieme degradato e pervasivo, devono necessariamente rimuovere per perpetuarsi.

Luca Sossella 

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