Era una mattina di dicembre, schermata da quel grigio madreperlaceo che fa di Parigi, nei giorni piovosi, una grande conchiglia triste. Ci eravamo intrufolati come due spie dentro il regno dei morti. Era naturale che fosse così, noi ci amavamo e perciò in quel territorio eravamo malvisti. Il contrario della morte infatti non è la vita, bensì l’amore. L’amore è una forma accresciuta di vita, è un concentrato di vita, è una vita al quadrato, e la morte non lo tollera. Ci siamo dati la mano e ci siamo incamminati per i vialetti sconnessi, ricoperti di foglie marce, sperando che il cimitero non si accorgesse di noi. Eppure molti di quei mausolei di famiglia erano aperti, avevano le porte socchiuse (spesso rotte, come a segnalare macabre infrazioni notturne), e la sensazione era proprio quella di essere spie a loro volta spiate. Mi dicesti di non guardare troppo a lungo dentro i loculi, ma era difficile distogliere lo sguardo da quei marmi rotti, da quegli spazi in penombra, da quelle urne impolverate, interni definitivi. Quanto a lungo lo sguardo può essere magnetizzato da uno scorcio sulla morte? Eravamo sul punto di metterci a piangere. Può esistere qualcosa di più sconvolgente che pensare a quei domicili permanenti? A immaginarsi a contatto con quelle pietre fredde? Continuavamo a camminare, adesso con un affanno maggiore, con la voglia di arrivare il prima possibile in fondo al giro. Volevamo uscire, ma ci eravamo persi. Ci sembrava di girare in tondo, e la segnaletica che indicava le tombe dei “famosi” – Rossini, Wilde, Modigliani- invece di aiutarci finiva col confonderci ancora di più. C’eravamo soltanto noi, quel giorno, al Père-Lachaise. Non una comitiva di turisti, non dei passeggiatori occasionali, non un custode. Possibile? Quella solitudine ci spaventò. Non avevamo nient’altro che il nostro amore. Nessuna prosopopea, nessuna rendita di posizione, nessun futuro. Ti fermasti d’improvviso davanti a una casa funebre imponente, decorata ai lati da due Marie addolorate che si tenevano il volto per mostrare e al tempo stesso celare la loro contrizione. La porta era aperta, e ti vidi sparire dentro, cedere di schianto al richiamo perentorio dell’ignoto. Urlai d’istinto: “No!”. Ma non riuscii a fermarti, e qualche corvo appollaiato sui rami degli alberi gracchiò per schernire il mio inutile tentativo di richiamarti alla vita. Aspettai due minuti, dieci minuti, un quarto d’ora. Cominciai a battere i denti del freddo, mi sentivo come intorpidito, spossato, ma non mi azzardavo a raggiungerti. Ti detestai, ti maledissi. Poi feci un passo, due, tre. Mi affacciai dentro e ancora non ti vidi, non mi raccapezzavo più, era tutto scuro, anzi oscuro. L’unico raggio di sole somigliava a un tenue ricordo di noi, e batteva su una ragnatela nell’angolo del loculo. Stavo per mettermi a piangere quando sbucasti da dietro il sarcofago di pietra.
“Mi va una crêpe,” dicesti, strafottente, e cacciasti via la morte ancora per un po’.
Luca Ricci