Era quasi estate la prima volta che incontrai Succi, al bar di una libreria di Milano. Faceva caldo. Umidità che ti leccava i vestiti come francobolli sulla pelle e Succi era lì: tutto alto e tutto solo, camicia verde-selva oscura, senza chitarra e senza notte a protegerlo perché erano soltanto le diciotto. E ora? Ora Succi prende il microfono e si siede, appoggia i gomiti sulle ginocchia, alza lo sguardo e va.
Dall’ultimo tavolino in fondo mi sembra di vederlo emergere come quei mostri che si insinuano nei grandi fiumi.
Suo è il ritmo e suo è il timbro sabbioso e grave. E tutto alto e tutto solo, senza chitarra e senza notte, ci carica sul suo ritmo e sulla la sua voce e ci porta via dallo smog appiccicoso. Pure i ragazzi che giocavano a pallone nella piazza, un po’ dissimulando, lo ascoltano. Possibile che questo tipo sia rock? O è un poeta incazzoso? Amaro ironico Succi ha vinto tutto solo.
E allora l’ho intervistato. Mi disse, tra le altre cose, che “al mondo devi provare a metterci dentro quel che ti sembra mancare” (vedi il ritmo anche qui? perché è proprio il ritmo suo, e gli viene fuori qualunque cosa scriva o dica), e quella frase è diventata un post-it mentale che mi accompagna sempre, e mi parla quando non so bene cosa fare.
Poi sono andata a vederlo raccontare Dante e il tempo voló e tutti desideravamo sentire ancora. Nessuno voleva tornare dal medioevo nel quale ci aveva trasportato. E sono andata a vederlo ancora, cantava le sue alla radio, cose di nicchia, ed eravamo in molti e gli chiedevamo il bis.
Poi arrivò la pandemia e chiusero tutto. Anche Germi, pur avendo un nome affine, dovete cancellare le sue date.
Arrivò allora la notizia che in quella primavera triste, spaventosa e monotematica, Succi in qualche modo poteva entrarti in casa. Capirai. Trasmetteva dal suo bunker nel
sottosuolo, dove tutto alto e tutto solo ti raccontava storie, ti cantava cose, e ogni tanto ti faceva arrivare una bottiglia di vino rosso. Lì la cosa era perfetta: ritmo, voce, rock, poeta incazzoso, Dante, Aretino, filologia e pure del buon vino rosso.
Allora la sera, quando tutti erano a letto, mi versavo un calice, indossavo le cuffie, e me ne andavo in giro dove Succi avesse deciso di portare i suoi patreons avventori.
Questi viaggi furono vitali. Questo bar in mezzo al nulla fu un bel rifugio, con bella gente, dei personaggi. Per questo sono ancora qui. Perché in tempi dove agli artisti dicono di essere presto riconoscibili e visibili, quindi di fare una cosa una, fino allo sfinimento e sempre quella, Succi se ne fotte (si può dire?) ed è tutto quel che è. E mischia tutto quel che sa. E mette al mondo quel che a lui sembra mancare. Un incrocio anomalo tra rock e filologia che ti fa viaggiare nel tempo a ritmo suo. Che ti investe così, senza trucchi e senza inganno, anche tutto solo, se vuole. Canta, recita, declama. Emoziona, molto, e fa ridere amaro.
Perde il filo quando fa il bis per dimostrare che è umano e, sia lodato chi di dovere, non balla.