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Su Bristow, Pelle di foca

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Tratto da una deliziosa leggenda scozzese, Pelle di foca, di Sue Bristow (E/O, 2019, pp. 265, euro 17, traduzione di Silvia Castoldi), è una lettura che ha la capacità di fermare il tempo e, in quel tempo sospeso, far schiudere valori che abbiamo dimenticato e, forse, irrimediabilmente perduto, stando a tutto ciò che di orrendo sta succedendo in Italia e sulle sue coste. Perché se è vero che anche in questa leggenda – riscritta dalla Bristow con grande semplicità: è il suo pregio – i protagonisti hanno a che fare con la maldicenza e l’aridità di chi abita la riva del mare, la penna dell’autrice, così leggera e piena di garbo, riesce ad arrivare laddove l’umanità si nasconde e si scherma: nelle fragilità, nella paura del diverso che tutti ci annuvola, nel rancore che però deve e può essere trasformato in nuova occasione di ascolto e di crescita, non solo per chi viene inserito quasi a forza all’interno di una comunità, ma anche per chi, in quell’ambiente, già ci vive e non pensa mai che l’intruso possa portare tanto bene, che possa riallacciare rapporti compromessi e abitudini e modi di pensare ormai incistati. È quindi sempre l’estraneo, in questo romanzo così come nella vita, assumendo le forme più varie, a rivelare e dimostrare una verità che si annida nelle complesse maglie dell’essere umano: quella complessità che ci dovrebbe far riflettere, molto, a proposito di certe prese di posizione acritiche e dettate dal pregiudizio (che è paura e ansia di salvaguardare ciò che è già precario), per tornare a valori condivisi che abbiano a cuore il Paese, certo, tenendo però bene a mente che cosa significhi avere alle spalle un passato di schiavitù che ha portato alcuni popoli ad essere merce, non esseri umani: merce che si può imballare e spedire agli angoli più lontani del pianeta. E questo, purtroppo, non si può cancellare. Troppa letteratura ci parla di questo, troppo passato doloroso. E ora il presente torna ad urlarcelo nelle orecchie.

Ma veniamo alla storia. Un giovane pescatore di nome Donald assiste alla svestizione delle foche. Ne escono i corpi luminosi e freschi di ragazze che sono poco più che bambine. “Sei, sette, forse nove giovani donne, snelle e aggraziate, che tenendosi per mano iniziarono a danzare come se la luna le avesse attirate verso l’alto, fuori dal mare, quasi sospese nell’aria, inebriate dalla gioia”. Donald ruba la pelle di una di loro, approfitta della ragazza e, nell’impeto dei sensi, se la porta a casa. La madre Bridie – altro essere fuori dal comune: anche lei estranea ormai integrata – capisce immediatamente che la signorina ha qualcosa di strano e di speciale, e chiede a Donald la verità. Madre e figlio architettano quindi un piano per giustificare la presenza della muta e stramba Mairhi – così la chiamano – agli occhi del paese. Tutto sembra procedere per il meglio, nonostante i sospetti e la difficoltà della convivenza, finché Aly Bain, uno dei pescatori più odiosi e violenti del paese, si permette di molestare la giovane. Mairhi reagisce sommergendo il cuore di Aly con l’immagine dell’annegamento, una delle paure più profonde e terrorizzanti per i marinai. Mahiri non parla, è vero, ma sa essere più eloquente delle parole, sa essere semplicemente se stessa: una potenza della natura, meravigliosa e mostruosa, benigna e matrigna; in ogni caso, dirompente. Il finale del romanzo è noto fin dall’inizio, essendo la leggenda originale citata in apertura, ma questo nulla toglie al piacere della lettura e alla possibilità che offre di trarne metafora e insegnamento profondo; usarla come rete, come spiega magnificamente questo passo del romanzo: “Parecchia gente che un tempo lo disprezzava, o almeno così aveva pensato lui, ora sembrava più che disponibile a dargli retta. Quella mattina, per esempio, era passato davanti al cottage di Hector proprio mentre il vecchio usciva a prendere l’acqua. Lo aveva salutato come al solito con un «buongiorno», senza aspettarsi risposta, e invece Hector aveva posato il secchio e si era avvicinato al muretto del giardino per chiedergli: «Pensi che più tardi pioverà?». In realtà non era una domanda, solo un modo per fare conversazione, e così Donald aveva imparato che la gente usava le parole come se fossero reti, per attirare gli altri a sé; a parte naturalmente Mairhi, che aveva metodi tutti suoi”. Sì, parole come reti: è così che la letteratura serve, e onora, la vita; è così che ricorda e testimonia, come in questi versi di Primo Levi:

Ditemi: in cosa differisce
Questa sera dalle altre sere?
In cosa, ditemi, differisce
Questa pasqua dalle altre pasque?
Accendi il lume, spalanca la porta
Che il pellegrino possa entrare,
Gentile o ebreo:
Sotto i cenci si cela forse il profeta.
Entri e sieda con noi,
Ascolti, beva, canti e faccia pasqua.
Consumi il pane dell’afflizione,
Agnello, malta dolce ed erba amara.
Questa è la sera delle differenze,
In cui s’appoggia il gomito alla mensa
Perché il vietato diventa prescritto
Così che il male si traduca in bene.
Passeremo la notte a raccontare
Lontani eventi pieni di meraviglia,
E per il molto vino
I monti cozzeranno come becchi.
Questa sera si scambiano domande
Il saggio, l’empio, l’ingenuo e l’infante,
E il tempo capovolge il suo corso,
L’oggi refluo nel ieri,
Come un fiume assiepato sulla foce.
Di noi ciascuno è stato schiavo in Egitto,
Ha intriso di sudore paglia ed argilla.

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