Perché poi finiamo in un vortice e non sappiamo più capire cosa viene prima e cosa viene dopo, e non importa essere filologici, non importa iniziare a leggere Roberto Bolaño dalla prima cosa che egli ha scritto: l’importante è iniziare, da un qualsiasi racconto, romanzo. Iniziare. Per non smettere più.
E così, per esempio, io qui azzardo, compio un arbitrio, decido di cominciare – ricominciare – a leggere Roberto Bolaño da un punto preciso che mi è balenato in mente l’altra notte, suscitato in me da altre entità quasi astratte, altri sonnambuli che si aggiravano tra le pagine di altri libri. Anche se non è del tutto esatto dire che compio un arbitrio. Non sono stato io a scegliere questo racconto, non in maniera consapevole, almeno. Il fatto è che era tardi e avevo da poco terminato L’occhio di Nabokov e ripensavo anche a Il libro nero di Pamuk, per l’esattezza a quel capitolo intitolato L’occhio, in cui Celâl Salik parla della notte in cui, terminato un articolo sui ciclopi, prima di rientrare nel suo appartamento, decide di fare una passeggiata per Istanbul. È scontento, Celâl, per tante ragioni, e mentre si aggira per certe vie secondarie che si intersecano disordinatamente, avverte la sensazione che un occhio lo stia fissando. Da dove, non saprebbe dirlo, ma è certo che un occhio lo stia fissando: un occhio in grado di vedere tutto, onnipresente.
L’Occhio di Silva
E nonostante Celâl alla fine capisca come lo sguardo che si era sentito addosso fosse il suo stesso sguardo, io ho pensato che quell’occhio potesse essere quello di Silva, detto l’Occhio, che lo aspettava e seguiva lungo la strada per raccontare anche a lui la storia che avrebbe poi raccontato al narratore dell’omonimo racconto di Roberto Bolaño, contenuto nella raccolta Puttane assassine, del 2001. Tanto più che «il caso dell’Occhio è paradigmatico ed esemplare, e allora forse non è ozioso tornare a ricordarlo, soprattutto ora che sono passati anni»: a parlare così è il narratore di Silva, detto l’Occhio, il quale, come spesso accade nei racconti di Roberto Bolaňo, non ha nome. Le uniche cose che sappiamo di lui è che è cileno, esule e poeta, e che quindi, in realtà, potrebbe benissimo essere Bolaño stesso. Anche Silva è cileno, e nel gennaio del 1974, quattro mesi dopo il colpo di Stato di Augusto Pinochet, arriva a Città del Messico dove frequenta i caffè nei quali si riuniscono alcuni esuli sudamericani, soprattutto cileni, tra i quali c’è, appunto, il narratore. Silva è un giovane fotografo squattrinato che trova lavoro presso un giornale. Su di lui, però, incombe un destino. Come su tutti i personaggi di Bolaňo, toccati dall’orrore e dalla grazia. Personaggi colti mentre camminano all’indietro, “di spalle, guardando un punto, ma allontanandosene, in linea retta verso l’ignoto”.
Una sera il narratore incontra per caso Silva al caffè La Habana. L’Occhio se ne sta seduto accanto alle vetrate che danno su Bucarelli, con un caffellatte servito nel bicchiere. Il narratore si siede accanto a lui e i due iniziano a chiacchierare. «Sembrava traslucido», dice il narratore, «sembrava fatto di luce e sembrava che la sua faccia e il bicchiere di vetro del suo caffellatte si scambiassero dei segnali, come se si fossero appena incontrati, due fenomeni incomprensibili nel vasto universo, e cercassero con più impegno che speranza di trovare un linguaggio comune».
Quella sera Silva confessa al narratore di essere omosessuale e di stare per lasciare il Messico per andare a Parigi dove un amico gli ha trovato un lavoro per un’agenzia fotografica. Poi parlano di politica. O meglio, parlano male della sinistra cilena e brindano ai combattenti cileni erranti, una frangia numerosa dei combattenti latinoamericano erranti.
Qualche mese più tardi, il narratore apprende come Silva abbia lasciato il Paese. Passano due o tre anni e anche il narratore abbandona Città Del Messico e va a Parigi, dove si mette alla ricerca di Silva senza però trovarlo. E così, con gli anni, il narratore comincia a dimenticarsi del volto di Silva, anche se, dice, gli rimane nella memoria un certo modo di avvicinarsi, un modo di esprimere opinioni da una certa distanza e da una certa tristezza per nulla enfatica che associava con Silva, «un Occhio Silva che ormai non aveva volto o che aveva assunto un volto fatto di ombre, ma che conservava ancora l’essenziale, il ricordo del suo movimento, un’entità quasi astratta dove però non c’era posto per la quiete».
Il tempo
Passano ancora gli anni. Come passano e trascorrono gli anni nei racconti di Roberto Bolaño, forse in nessun altro scrittore, con le omissioni, con tutto ciò che resta fuori campo e che però, da qualche parte, sta producendo conseguenze. Quasi sempre tragiche. Conseguenze che noi lettori non vediamo perché il racconto è spesso affidato a una voce altra, che condivide lo stesso destino da esule e che si fa testimone degli sconfitti: un modo per restituire in maniera ancora più incisiva la deriva geografica ed esistenziale di tutti quei latinoamericani dispersi nel mondo.
E insomma, passano gli anni e alcuni amici del narratore muoiono (ecco la prima conseguenza che produce il passare del tempo: la morte), e il narratore si è intanto trasferito altrove e ha avuto un figlio e ha pubblicato dei libri. Proprio come Bolaño stesso. In una certa occasione, il narratore va a Berlino. L’ultima sera, dopo la presentazione del suo libro e la cena in un ristorante, va a fare una passeggiata. Attraversa alcune strade e si ritrova in una piazza. Non sembra esserci nessuno in giro, ma ecco che, invece, seduto su una panchina c’è un uomo che lo sta aspettando: è Silva, detto l’Occhio. Quella notte i due parlano fino all’alba, prima nella piazza, poi in diversi locali, dove il loro dialogo si svolge sostanzialmente sul piano della rievocazione: «vale a dire, fu un dialogo informativo e malinconico».
Il dialogo – in realtà il monologo – che davvero interessa il narratore è quello che si svolge verso le due del mattino. Anche perché il caso vuole che Silva si metta a parlare proprio mentre i due attraversano la stessa piazza dove qualche ora prima si erano incontrati. È qui che Silva inizia a raccontare di un viaggio fatto anni addietro, un viaggio in cui gli è accaduta una cosa terribile. E lo fa sedendosi sulla stessa panchina – la panchina della desolazione – dove il narratore lo aveva incontrato, «come se io non fossi mai arrivato, come se non avessi nemmeno cominciato ad attraversare la piazza e lui mi stesse aspettando e stesse riflettendo sulla vita e sulla storia che il destino o il caso lo spingeva a raccontarmi».
La storia dell’Occhio
La storia dell’Occhio si svolge in India, in una città che egli non dice. Un pomeriggio, racconta Silva, gli offrirono di andare gratis con una puttana ma lui rifiutò educatamente. Il magnaccia con cui stava capì subito che era omosessuale, così, la notte successiva, lo portarono prima in «un bordello di froci» e poi in un altro luogo, «una sorta di labirinto di corridoi, stanze minuscole e ombre fra le quali si distingueva, di tanto in tanto, un altare o una cappelletta». Era un bordello in cui finivano i bambini che, secondo un rito barbaro, prima di compiere sette anni, erano stati offerti a un qualche dio. Ogni anno, racconta sempre Silva, in questa città si svolgeva una festa, e anche se essa era proibita dalle leggi della repubblica indiana, veniva comunque celebrata. Si sceglieva un bambino che per un mese incarnava il dio e gli si offrivano doni. Prima delle celebrazioni, però, il bambino veniva castrato. Erano gli stessi genitori a consegnare il proprio figlio ai medici o ai sacerdoti della festa. Una volta trascorso il mese, il bambino tornava a casa ma i genitori dopo un po’ lo respingevano, riconsegnandolo al bordello. Quella notte a Silva offrirono un bambino castrato che non doveva avere più di dieci anni e conobbe un altro bambino e il medico che il giorno dopo avrebbe castrato anche quest’altro bambino, e in quella situazione, lui, che nella vita non aveva mai provato odio, si era trasformato in un’altra cosa, «anche se l’espressione che adoperò non fu “un’altra cosa” ma “una madre». Quello che accadde dopo ha a che fare con la violenza: «la violenza a cui non ci possiamo sottrarre. Il destino di noi latinoamericani nati negli anni cinquanta». Perché Silva cercò dapprima la via del dialogo con il medico per riscattare i bambini, poi la via della corruzione e infine della minaccia. Ma non fu sufficiente. L’unica cosa certa è che ci fu della violenza. L’unica cosa che ricorda Silva è sé stesso correre per le strade con i due bambini e la sensazione di esaltazione che provava, qualcosa di simile alla lucidità, ma come se tutto si svolgesse dentro un sogno.
Mentre singhiozza e si guarda intorno spaurito, Silva rievoca al narratore i fatti successivi: la fuga dal villaggio, la paura di essere scoperto, i mesi di stento, come divenne agricoltore, come si prese cura dei bambini, come spesso la notte sognasse di essere sorpreso dalla polizia indiana e arrestato con accuse indegne, come i bambini si ammalarono e come infine morirono.
L’orrore
E la sensazione che noi abbiamo è che Silva, detto l’Occhio, abbia davvero visto l’orrore – una sua manifestazione – e che da quando ha visto l’orrore in faccia, non abbia più dormito e abbia soltanto pianto. Lui, ma anche noi lettori sonnambuli, che piangiamo «per i suoi figli morti, per i bambini castrati che non aveva conosciuto, per la loro gioventù perduta, per tutti i giovani che non erano più giovani, e per i giovani che erano morti giovani, per quelli che avevano lottato per Salvador Allende, e per quelli che avevano avuto paura di lottare per Salvador Allende» e per Silva, detto l’Occhio.
Gianluca Minotti