Avevo poco più di 20 anni e frequentavo l’Accademia di Belle Arti di Carrara quando riuscii ad avere un appuntamento con il gallerista milanese Enzo Cannaviello, pioniere dell’arte contemporanea e talent scout di riferimento per i giovani artisti sul finire degli anni ’90.
Di fronte ai miei lavori disse che sì, erano interessanti, era interessato, ma io dove vivevo, in provincia? No, dovevo trasferirmi a Milano. Avevo una relazione? Meglio lasciar perdere, metter su famiglia era fuori discussione: se avessi avuto dei figli, sarei stata tagliata fuori dal giro. Piuttosto, dovevo frequentare le inaugurazioni, gli aperitivi, instaurare e coltivare le relazioni giuste.
«Ho avuto tre aborti. Un figlio sarebbe stato un disastro per la mia carriera»: con queste parole l’artista Marina Abramovic ha spiegato la sua decisione di non diventare madre. La Abramovic ha sottolineato che sarebbero proprio i figli a estromettere le donne dal mondo dell’arte: «Secondo me c’è una ragione per la quale le donne non hanno successo in campo artistico come gli uomini. Il mondo è pieno di donne talentuose. Perché allora gli uomini ricoprono sempre le posizioni più importanti? È semplice. Amore, famiglia, bambini – una donna non vuole sacrificare tutto questo.»
Esiste un mondo autoriferito, chiuso, perlopiù impenetrabile, un circuito di gallerie, critici, mostre, riviste e premi dove a muoversi sono i soliti noti. Se hai talento e sei disposta a sacrificare all’altare dell’Arte la tua vita sei dentro.
Altrimenti si prospettano altre strade.
Puoi fare l’artista se provieni da una famiglia di artisti (in grado di sostenerti), se sei ricca, o se sposi qualcuno che ti può mantenere (Louise Bourgeois sposa il critico d’arte Robert Goldwater, sono benestanti, hanno tre figli, presumibilmente cresciuti da tate: nonostante questo, ha dovuto aspettare i 71 anni per avere la prima retrospettiva al Moma; nel 1950 aveva aderito al gruppo degli Irascibili, artisti che protestavano proprio contro le scelte conservatrici del Metropolitan Museum of Art di New York).
Puoi dedicarti alla tua passione anche se hai famiglia, anche se devi fare un altro lavoro per guadagnare, ma in questo caso l’attività artistica diventa una sorta di hobby, quell’ora libera tra la preparazione della cena e il collasso, in cui devi decidere se andare a correre per non soccombere al tracollo fisico o metterti a disegnare per far tacere quella voce che non ti dà tregua.
Puoi a questo punto entrare nel circuito underground, un ambiente certamente più dinamico, aperto e frequentabile, che però non garantisce alcuna sussistenza, anzi, richiede un certo investimento, di tempo e denaro. Insomma, ti diverti e riesci un po’ a far circolare il tuo lavoro, ma rimangono pur sempre memorie dal sottosuolo.
Puoi manifestare il tuo inconciliabile rifiuto rimanendo fuori dall’arte, dalla cultura e dalle istituzioni, poiché consideri illusoria la possibilità che l’arte possa diventare una forza di liberazione, troppo compromessa con le strutture dell’oppressione femminile, appannaggio di un discorso maschile, del mito della virilità e del culto dell’artista. Per poi scoprire che nella vita privata si prospettano le stesse difficoltà, l’impegno familiare divora lo spazio e il tempo della creazione, e anche tra le mura domestiche sarebbe necessaria la rivoluzione. Quanti fronti sarai in grado di aprire, tra una lezione da preparare e la spesa da fare? Non è un mistero che Lee Krasner si sia affermata come artista solo dopo che il marito Jackson Pollock, un altro Irascibile, è morto schiantandosi ubriaco con la macchina contro un albero.
Puoi rigettare un mondo in cui sembra impossibile creare relazioni autentiche, e anteporre un gesto personale come politico nella costruzione di relazioni sociali e sentimentali. Per poi renderti conto che sei tagliata fuori dall’ambiente, non conosci nessuno, non sai come muoverti, e non saranno le tue scelte da outsider a procurarti un riconoscimento.
Puoi esercitare un pensiero contro, contro l’inclusione, che è quanto si offre ai colonizzati, contro l’emancipazionismo, che nel porre la parità tra i sessi incorre nell’omologazione dell’uno all’altro, contro i paradigmi che hanno affermato lo sguardo maschile e normativo come indiscusso. Uno sguardo che ha reso invisibili altri sistemi e regimi di visibilità, confermando un’asimmetria costitutiva nella scrittura della storia dell’arte che pone la donna in una posizione subalterna, in una segregazione da riserva indiana.
Nello stesso tempo, il mondo dell’arte ha saputo catturare gli immaginari femminili e i suoi strumenti di rottura. L’alto numero di mostre “al femminile” non fa altro che confermarlo.
L’istituzionalizzazione del femminismo incontra nell’arte un terreno di caccia privilegiato, totalmente mimetizzato da un’apparente libertà di espressione e creatività, in gran parte sponsorizzato da grandi aziende, accompagnato da retoriche sulle quote rosa e mistificazioni sulla parità di genere. Non più represse ma sussunte all’interno del meccanismo. Prigioniere del dilemma: non lasciarsi annientare e contemporaneamente non adottare soluzioni di potere. Qualunque sia la tua arte, questa verrà etichettata come femminile, e la tua carriera, anche se lavori da una vita, potrebbe decollare dopo gli ottant’anni.
Nell’irriducibilità e nella rottura conflittuale di questo rifiuto, farai i conti con la tua inadeguatezza, sarai fuori posto, in un altro tempo e in un altro spazio, fatto di gesti, corpi, assonanze, fratture, desideri e tracce non immediatamente spendibili. Non meri documenti, non ancora arte, ma vite vissute. Eppure, tutto questo chiede di essere detto.
Che fare? Assumere il sacrificio come inevitabile, mimetizzarsi ed entrare nel sistema delle “macchine celibi desideranti”?
Rinunciare?
Diventare artista-femminista, esaurirsi nella lotta, sotto lo sguardo compassionevole di amici e nemici?
Boicottare l’impegno domestico, frantumare la famiglia, bucare le pentole e mandare i figli a prendersi un panino al bar con i soldi dei nonni?
L’arte è spazio incerto, luogo di possibilità, desiderio di sconfinare. Anche speranza in un futuro diverso e migliore da costruire, promessa di cambiamento.
L’artista dovrebbe rimanere nomade, immergersi in ciò che è instabile, errare, perdersi, bruciare e rinascere dalle ceneri. Le opere sono vettori che suggeriscono connessioni, trame, percorsi esistenziali.
Essere perennemente identici a se stessi non consente di pensare le trasformazioni, il futuro, il cambiamento. Il lavoro dell’artista è una porta che apre e si apre a qualcosa che conduce altrove. E questo altrove è ciò che dobbiamo immaginare.
Non l’arte nonostante la vita, ma un’arte in dialogo con l’esistenza.
Se il gruppo degli Imperdonabili ha per obiettivo quello di «allargare la base sociale del mondo artistico e letterario con una prospettiva, una struttura e un linguaggio differenti» rispetto al conformismo imperante, il mio augurio è che questo vento possa soffiare anche tra i muri del tempio dell’arte, per scardinare quelle barriere che ne definiscono e comprimono lo spazio.
Per dirla con Goliarda Sapienza: «Sempre fuori da tutti i poteri costituiti, soli, ma con l’orgoglio di sapere la rettitudine che soltanto nell’outsider alligna.»
Floriane Calvanese
Floriane Calvanese (1976) ha collaborato con la casa editrice Transeuropa dal 2004 al 2013, curando la grafica di tutte le collane e del sito web. Insegna Disegno e Storia dell’Arte, si occupa di progetti di illustrazione, grafica e stampa hand made.