Alcune volte viene il dubbio che la Storia, quella con la maiuscola, non sia maestra di nulla e che venga presa con leggerezza da noi tutti. Al massimo, viene considerata come roba polverosa, che solo studiosi incanutiti amano scandagliare e interrogare. Per non parlare delle tante interpretazioni revisioniste che fanno corona.
Dico questo perché molta della nostra Storia contemporanea è per molti di noi avvolta dalle nebbie e prossima all’inesistenza.
Prendiamo Giacomo Matteotti, detto “Tempesta” per il suo carattere appassionato e determinato.
Se provate a chiedere in giro chi è stato e cosa ha rappresentato e rappresenta per l’Italia, novanta su cento non avrete risposta.
Eppure questo deputato socialista ucciso per mano fascista, è stato una figura capace di anteporre gli interessi della democrazia a quelli personali come pochi. Cento anni fa, esattamente il 10 giugno 1924 questo gli costò la vita.
Uscito per Lapis edizioni una manciata di giorni prima della Fiera del libro per ragazzi 2024, Tempesta Matteotti (pagg 235. € 13,50) è l’ultimo romanzo, in ordine di tempo, a firma Luisa Mattia.
Scritto per ragazzi dagli 11 anni, prende a riferimento quest’uomo politico, socialista e grande comunicatore. Non lo fa unicamente per commemorare il tragico evento, quanto per offrire uno spaccato dei tempi oscuri in cui Matteotti opera. Solo in seconda battuta lo si può definire un libro che rende omaggio alla sua figura umana e politica. Un romanzo che appare quindi scritto “con” Matteotti piuttosto che “su” Matteotti.
Dietro la bella copertina firmata da Ivan Canu, Tempesta Matteotti si muove nelle pieghe finzionali offerte dai momenti vissuti in famiglia da questo uomo politico: il suo dialogare con la moglie Velia (forte contraltare agli eventi che lo coinvolgono), la sua figura di padre e, ripetiamo, di uomo prima ancora che di deputato.
Mattia inoltre allarga la trama ad altri personaggi, quasi in un gioco di rispecchiamenti, capaci di fare cassa da risonanza a quanto viene a svilupparsi fra le pagine, a meglio inquadrarlo per via indiretta.
In effetti, Tempesta Matteotti racconta cosa era il periodo in cui il fascismo si organizzava per prendere definitivamente il potere, ancor più racconta come operava il suo braccio armato a fini politici. L’ambientazione romana, e il conseguente uso del dialetto, serve perciò alla narrazione per creare un contesto (neo)realistico, come anche un alleggerimento rispetto agli eventi che montano di capitolo in capitolo.
Alla fine, quello di Mattia è un romanzo dove la metafora è situata nel quadro di insieme, al netto delle intenzioni didattiche. Qui sono le psicologie dei personaggi date attraverso le loro azioni, i loro pensieri, a restituirci le persone che rappresentano, il loro significato simbolico, non solo quello strettamente storico.
Ne abbiamo parlato con Luisa Mattia durante i giorni della Fiera del libro per ragazzi 2024.
Sergio Rotino
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Ho avuto l’impressione che il tuo Tempesta Matteotti fosse un romanzo più “con” Matteotti che “su” Matteotti. Metti in campo lui e la sua famiglia, la moglie Vera e i due figli, quello che accade all’uomo politico, ma allarghi il paesaggio a quanto gli accade intorno, inserisci altri personaggi che gli fanno da contraltare…
Sì, vero. È un libro “con” Matteotti. Questo perché, quando ho iniziato a pensare al libro, sapevo con certezza che non avrei scritto una biografia.
Avevo anche un’altra idea guida. Sapevo che raccontare quanto è accaduto a Matteotti significava raccontare quanto è accaduto al nostro paese in quegli anni. Per farlo dovevo metterci una passione e una partecipazione pari a quella che trovavo negli scritti di Matteotti. L’idea si è andata rinforzando nel tempo, grazie alle ricerche che ho condotto per documentarmi e poter scrivere il romanzo.
Puoi dirci quali sono state le fonti documentali che hai utilizzato per scrivere Tempesta Matteotti?
Ho consultato soprattutto l’archivio storico del “Corriere della sera” e l’archivio della Camera dei Deputati.
In quest’ultimo ho potuto leggere la trascrizione integrale dei suoi discorsi, così come quelle dei discorsi fatti da Mussolini, ma anche di tutto quanto accadeva in aula durante le riunioni di assemblea. Ma è soprattutto dalle cronache riportate sui giornali dell’epoca che ricevevo indietro lo stordimento di chi doveva documentare le continue aggressioni da parte delle milizie fasciste. Nello specifico, mi ha colpito quanto accade al villino Nitti, così come quanto accade a Giovanni Amendola.
Questa aggressione appare oggi quasi come una preparazione all’omicidio di Matteotti. Volevo raccontare questo perché sono le tipiche situazioni in cui anche oggi cadiamo.
In che senso?
Nel senso che leggiamo di una aggressione in un pagina di cronaca, leggiamo un commento politico, poi ce lo perdiamo, non riusciamo a tenerli insieme.
Ma, a parte la violenza, le aggressioni ripetute e costanti che sono state documentate, per me è stato importante poter mettere in fila quanto è accaduto in quegli anni.
Che non son anni per nulla facili per l’Italia, a livello di politica interna.
Ti dirò, in questo senso Giacomo Matteotti è stato di una intelligenza comunicativa contemporanea. Leggendolo, lui per primo mi dava e mi dà ancora oggi la convinzione che bisogna fare attenzione.
Qualunque sia il simbolo, qualunque sia il rito, qualunque sia il gruppo politico, esiste una connessione tra le violenze e le aggressioni perpetrate. Anche i fatti che possiamo definire “folcloristici”, che rubrichiamo come “roba da poco”, “uno scherzo”… No, quella “roba da poco” può diventare un attacco alla democrazia perché si infiltra lentamente in noi, abituandoci alle cose peggiori.
A mio avviso, Matteotti ha avuto il coraggio di non abituarsi al peggio. Questa per me è stata una scoperta, ma anche il recupero di una testimonianza democratica e partecipe nella nostra vita di oggi.
Quale autore ti ha accompagnato nella stesura del romanzo, quale spirito guida degli scrittori?
Direi proprio Matteotti. Lui e sua moglie.
Come ho accennato prima, per prepararmi a scrivere questo libro ho studiato e ristudiato Matteotti e la vita sua vita famigliare.
Ho scoperto di aver pensato di saperne molto, mentre non sapevo niente. Avendo studiato all’università, avendo letto, presupponevo una conoscenza vasta. Invece ho scoperto un pezzo di storia italiana che nessuno mi aveva raccontato e che finalmente Matteotti mi stava raccontando.
Immagino tu intenda a livello politico.
Certamente. Matteotti ha prodotto molto per quanto riguarda l’informazione politica.
Nel gennaio 1924, pochi mesi prima di morire, pubblica Un anno di dominazione fascista. È un libro in cui raccoglie ed enumera le aggressioni, le vessazione, le esecuzioni sommarie compiute dal 1922, quindi dalla marcia su Roma, dalle milizie fasciste sul tutto il territorio nazionale italiano. Sono circa cento pagine, ma di una densità senza pari. Lì ho capito che l’Italia aveva vissuto due anni di terrore vero. E questo senza che nessuno ce lo avesse raccontato seriamente.
Altra cosa importante per il mio lavoro, è stato poter leggere l’epistolario tra lui e la moglie. Una lettura sorprendente.
Vi ho scoperto oltre alla loro comunicazione, il sentimento del tempo che scavalca il sentimento amoroso condiviso fra due giovani costretti a vivere in una tempesta. Una tempesta che è ben altra cosa rispetto al soprannome di Matteotti.
Già, perché il tuo libro è intitolato Tempesta Matteotti proprio ricordando il soprannome del personaggio di cui narri.
Esatto. Ma nel mio romanzo cerco di dare spazio alla tempesta dei tempi che hanno vissuto e che ha determinato i loro destini, senza modificare la forza dei loro sentimenti e la forza delle convinzioni democratiche portate avanti da Matteotti nonostante tutto e nonostante tutti.
C’è lui, la sua passione, la scoperta di un rapporto bello con la democrazia e con la politica.
Un rapporto che è quello della convinzione e della sincera partecipazione, così come dell’obbedienza ai principi di rispetto per l’altro. Qualcosa che Matteotti è riuscito a mantenere perfino nel momento e nel lungo periodo in cui l’altro, ovvero Mussolini, non rispettava niente.
È come avessi avuto la concessione di entrare in un modo di essere e di raccontare, che poi mi ha aiutata a scrivere.
Il libro ha uno stile di scrittura molto lineare e sobrio. Inoltre, per alcune scelte narrative, potrebbe essere avvicinato ad alcune forme di Neorealismo. Mi è venuto in mente, con tutti i distinguo possibili, l’approccio di Vasco Pratolini, ma anche di certo Pasolini.
Ti dirò, per scrivere questo mio romanzo ha funzionato tantissimo la memoria familiare.
Devi considerare che in quegli anni mio nonno era un uomo giovane, e mia madre una bambina. Le atmosfere che racconto, le strade di Roma, i ragazzi come Cesira e Augusto, il fornaio Remo che sono presenti nelle mie pagine… Tutto è costruito su quella memoria, su quelle ingenuità, su quelle atmosfere e anche su quella naturale ostilità nei confronti del fascismo che esprimono i personaggi.
Quindi nessun aggancio con la narrativa post conflitto mondiale. Tantomeno con il film di Paola Cortellessi.
Guarda, ho cominciato a scrivere Tempesta Matteotti molto tempo prima che sapessi del film della Cortellessi. Film che, per la cronaca, ho visto e apprezzato. Ma dopo aver consegnato il mio lavoro alla casa editrice. Poi, io sono romana. E quella Roma lì, neorealista, mi è arrivata sì, ma come parte del bagaglio familiare.
Oltretutto Cortellesi punta sulla questione di genere mantenendo la barra dritta nel genere della commedia, direi. Mentre tu ne parli, sì, ma il tuo intento è storico, di documentazione. Cerchi di raccontare una società di proletari che restano abbacinati da parole d’ordine secche, da discorsi ambigui. Una società comunque vicina a una svolta politica epocale, in cui saranno proprio i ceti più poveri i primi a pagarne le conseguenze…
Se ci pensi, lo stesso Augusto, l’Augustarello garzone di fornaio, irretito dal presunto ordine che ammanta le milizie del fascio, è veramente un ragazzino del popolo: povero in canna, senza un soldo che sbatta contro l’altro. Augusto non ha una identità. Per cui entra dentro questa fascinazione per il fascismo, che ho raccontato avendo però sempre accanto i commenti che faceva mio nonno.
Cioè?
Mio nonno era anarchico e ho avuto da lui racconti molto precisi su come ha vissuto prima l’affermarsi e poi il definitivo potere di un regime che imponeva – con la forza, l’intimidazione e la prepotenza – la propria visione del mondo. Il popolo subiva e obbediva anche perché mancava di informazioni e di strumenti culturali per reagire.
C’è una espressione nel libro: “morammazzato”…
L’esclamazione di Remo, il fornaio. Viene ucciso proprio a causa di questo epiteto da un manipolo fascista. Proprio poco tempo prima dell’omicidio di Matteotti.
Era una frase di cui mi raccontava mia madre. Apparteneva a mia nonna.
La nonna aveva dovuto cucire tre divise da balilla per i suoi figli, perché partecipassero al sabato fascista… Perché, sia ricordato, il popolo era obbligato a partecipare. Ma la famiglia non aveva soldi. Quindi lei, essendo una sarta, si era arrangiata come poteva. Aveva creato una pettorina che facesse da camicia, aveva rimediato dei tagli di stoffa più o meno adeguati… Non ho mai conosciuto la nonna, ma la mamma raccontava ridendo che lei, ogni volta in cui li doveva vestire da balilla, esclamava “Volete tutti annà da quel morammazzato”.
Il tuo romanzo ha il patrocinio ufficiale della Fondazione Matteotti. In cosa ti ha coadiuvato la Fondazione?
In realtà, l’abbiamo contattata tramite la casa editrice dopo che il libro era stato già lavorato e chiuso.
Edizioni Lapis le ha fornito le bozze di Tempesta Matteotti, informandola che lo avremmo pubblicato e chiedendo se era di loro interesse, e coerente con le loro attività.
La Fondazione ha attivo da sempre, ma quest’anno più che mai, concorsi con le scuole presentazioni e altro ancora. Alberto Aghemo, presidente della Fondazione, è stato molto gentile a leggere subito il mio romanzo e a scrivere a Lapis per dare il patrocinio sentendolo in sintonia con il loro operato.
L’impressione che ho avuto leggendo il tuo romano è che, al di la delle due storie che si sviluppano ovvero quella di Matteotti e Velia e quella di Cesira e Augusto, ce ne sia un’altra, sullo sfondo eppure presentissima. Parlo di quella fra Matteotti e Mussolini. Fra le altre, sembrerebbero gli unici due ad avere coscienza di come e cosa comunicare.
Leggendo le cronache e le registrazioni della Camera dei Deputati, questo risulta evidente.
Il punto è che Matteotti era solo.
Lasciato solo dai suoi colleghi di partito anche per stima, sia chiaro, come a dire che solo lui era capace di questo sforzo comunicativo. “Solo tu sei capace di tenergli testa”, insomma.
Matteotti probabilmente era l’unico fra i deputati dell’opposizione che potesse in quel momento, fatti e documentazione alla mano, contestare a Mussolini quanto stava avvenendo.
Non è un caso che gli storici stiano oggi sottolineando in modo evidente come Matteotti venga rapito e ucciso il 10 di giugno, così da impedirgli di parlare alla Camera il giorno dopo.
Aveva fatto ricerche – che oggi chiameremmo investigative ma portate avanti da un politico – su un affare legato all’esclusiva che il governo fascista stava per dare a una società petrolifera americana per lo sfruttamento del petrolio in Italia e per la fornitura dello stesso all’Italia.
Questo “impiccio” prevedeva quelle che oggi chiamiamo “mazzette”. Matteotti ne voleva parlare l’11 giugno.
Insomma la successione degli eventi dà da pensare.
Chiaro che Mussolini ne fosse al corrente, chiaro che Mussolini non amasse Matteotti. Anche perché lo conosceva dai tempi della comune militanza nel Partito Socialista. Sapeva bene di aver di fronte una persona che non si sarebbe fermata ed è altrettanto chiaro, perché la storia lo documenta, che fu Mussolini a dire “Toglietemelo di torno”.
Quella frase è stata una sentenza, c’è poco da fare.