Federico Riccardo è nato nel 1991 a Milano, città dove tuttora risiede. Si è laureato in Scienze dei Beni Culturali presso l’Università degli Studi di Milano con una tesi sul teatro indiano. Ha lavorato come Ufficio Stampa e Digital Pr ma anche come ghostwriter e web editor. Con la casa editrice Bookabook ha pubblicato due libri: Il tempo è il binario di un tram (2020) e Le vie di mezzo- Esercizi di immobilità (2021). Nel 2023, per Edizioni Effetto, ha pubblicato la raccolta di racconti “Erotica liquida”, assiema a Simone Sciamè. È uno dei fondatori (e animatori) del magazine on line di racconti brevi contemporanei “Topsy Kretts”. Il suo ultimo libro pubblicato è la raccolta di racconti: “Tender” (Edizioni Effetto 2024).
Mario Schiavone
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Da scrittore di storie in prosa, e lettore forte quale sei, al momento, come vedi lo stato di salute dell’editoria contemporanea in Italia?
È molto difficile per me dare una risposta precisa, dal momento che mi reputo un grande distratto. Non so dirti se le cose stiano andando bene o male. Per quanto riguarda me e quello che faccio, posso dirti che le riviste letterarie stanno giocando un ruolo importante per il cambiamento. La litweb è un ponte accessibili a tutti. E molto spesso, è attraverso le riviste letterarie, che editor e scout si accorgono del potenziale di autori e autrici. Fermento c’è. Bisogna solo stare attenti. Forse si potrebbe osare ancora di più, ecco. Si potrebbe superare lo snobismo – dettato dalle solite logiche di vendibilità – legato al mondo dei racconti brevi.
Quali sono gli autori italiani e stranieri, viventi e non, che reputi canonici per la tua formazione di appassionato lettore di storie?
In ordine sparso: Michele Mari (qualsiasi cosa), David Foster Wallace (“La scopa del sistema “è stato una folgorazione), Pier Vittorio Tondelli (nello specifico “Altri Libertini” e “Un weekend postmoderno”: due documenti storici). Non posso non citare Carver e Calvino. Tra i contemporanei mi stuzzicano tanto Matthew Baker, la cui raccolta di racconti “Perché l’America?”, un lavoro davvero dissacrante sulle contraddizioni degli Stati Uniti, è stata portata in Italia da Sellerio. E infine Valentina Mira, che è mia coetanea e mi insegna ogni giorno a metterci la faccia. Ha regalato alla redazione di Topsy Kretts tre racconti meravigliosi, tutti – chi più chi meno – incentrati sul tema della precarietà e delle conseguenze dello scrivere oggi.
Qual è stato il primo racconto in prosa che hai letto e che ti ha invogliato a leggerne altri?
Molto prima di leggere Carver, ho affrontato “Tu, sanguinosa infanzia” di Michele Mari. Ai tempi non immaginavo si potesse parlare dell’infanzia in maniera così affascinante, ma anche orrorifica. Nel racconto “I giornalini”, il primo della raccolta, il protagonista, parlando del suo feticismo verso i giornalini che colleziona da quando è bimbo, dice: “è questo l’unico lampo non triste della vita mia”. Il narratore si strugge perché sta per diventare padre e non vuole che un giorno la sua collezione di giornalini passi nelle mani del figlio. Ho imparato, attraverso la lettura di questo racconto, ad affrontare la verità, a non vergognarmi del fatto che sì, l’infanzia può anche essere un momento deprimente. Ho imparato che ogni feticismo conserva un’identità, un’unicità. E non c’è niente di male.
Qual era la via di accesso ai libri, da piccolo, rispetto al luogo in cui abitavi?
Questa è una domanda meravigliosa e temo che mi serva una giornata per rispondere in maniera del tutto esaustiva. Io ho vissuto la maggior parte della mia vita in periferia. L’appartamento in cui sono nato e cresciuto era al confine tra Milano e Sesto San Giovanni e attorno a noi non avevamo nulla: solo una lunga strada e un tram lentissimo che impiegava mezz’ora per arrivare a scuola. Poi abbiamo traslocato in un’altra zona periferica, anche questa più o meno “al confine” tra Milano e Bresso. Luoghi in cui la cultura te la devi cercare se non addirittura inventare un po’ tu. Mi ha salvato una biblioteca: le letture affrontate qui, alcune volte in maniera totalmente “randomica” si sono rivelate determinanti. Così come i dvd noleggiati in questo non-luogo mi hanno fatto scoprire, in piccolo, il mondo del cinema. È stato faticoso: è difficile partire da zero, senza stimoli dall’esterno. Però poi sono arrivate le letture scolastiche ed è stato molto più agevole.
Quanto la formazione scolastica avuta da giovane ha alimentato la tua voglia di leggere e scrivere storie?
Gli anni più belli della mia vita sono quelli delle scuole superiori, nello specifico la quarta e la quinta. È in questo periodo che, tra le tante scoperte, mi sono approcciato a quel mondo di letture “obbligate”, a capolavori come “Il fu Mattia Pascal”, “I Malavoglia”, “La coscienza di Zeno” (a oggi il mio romanzo preferito). Alla maturità ho portato la Grande Depressione e ho scoperto “Furore” di Steinbeck, un altro gigante della letteratura. I miei compagni trovavano tutto questo estremamente palloso, io ero felice perché mi era stato imposto di leggere questo genere di cose. “I promessi sposi” li ho apprezzati più tardi, durante l’università: ho saltato una sessione di esami perché ho voluto leggerli dall’inizio alla fine. I racconti sono arrivati molto dopo.
Rispetto alla presenza del tuo ultimo libro sul mercato, che giudizio daresti al tuo percorso autoriale in Italia osservando il ruolo di critici letterari e anche quello degli editori che hanno letto curato e pubblicato il tuo nuovo libro?
“Tender” ha vissuto e vive di un grande rispetto. A partire dall’editore, Flavio Passi, che ha subito voluto che gliene mandassi qualche pagina, passando per l’editor, i lettori e gli addetti ai lavori in genere. Ho apprezzato il fatto che “Tender” sia stato in qualche modo accostato all’attività che svolgo con Topsy Kretts: è un lavoro che, vuoi per l’indagine sul racconto breve, vuoi per la sua vocazione “contemporanea”, vive di questa coerenza. Sono grato a chiunque abbia letto questa storia. Ognuno ci si è un po’ ritrovato. Tranne quelli che hanno più di 60 anni: i boomer lo hanno trovato “sbagliato”, “inutile”. Ma è tutto normale: il libro non è rivolto a loro.
Come – e quando lavori – alle tue storie da scrivere rispetto ad altri lavori svolti per sbarcare il lunario?
Le mie storie nascono principalmente di notte, perché di giorno sono tenuto a scrivere altro: articoli per il web, comunicati stampa, libri in qualità di ghostwriter, ecc. Se un testo è forte, finisce per prendersi il suo spazio anche di giorno. In questo, sono una persona molto disordinata: inizio un articolo, lo lascio per qualche minuto a metà, riprendo un racconto, sistemo due cose, gli aggiungo sostanza, prendo note, poi torno all’articolo. Non vorrei mai avere a che fare con una persona come me, ora che ci penso. Però ormai le cose vanno così.
Che consigli daresti a un aspirante scrittore italiano che viene a bussare alla tua porta di casa nel 2024?
Di vivere con molta leggerezza e di non prendersi tutte le responsabilità di questo mondo solo perché è scrittore. Di non avere un’opinione su tutto. Di ascoltare l’altro, di essere generoso. E osare sempre. Rischiare. E, ovviamente, di leggere tanto. Leggere più che scrivere.
Che temi affronta la rivista letteraria che curi e cosa desideri per questo tuo progetto culturale?
In piena “zona rossa” ho telefonato a un amico. Questo si è confidato con me e mi ha riferito che dall’inizio della pandemia non è più riuscito a vedere il suo vicino di casa nonché testimone di nozze, con cui aveva un rapporto quasi fraterno. Alla richiesta di uscire distanziati a portare i cani al parco, la risposta è stata: “Non mi va più di uscire con nessuno. Preferisco stare sul divano”. Da quel momento è nato un incontro tenuto nel 2021 a Edita Fiera (una fiera di editoria indipendente a Milano) assieme a due amici, Mico Argirò e Simone Sciamè, intitolato “3 autori contemporanei riflettono sull’esistenza”. Una sorta di riflessione sul momento di completo distacco che l’umanità stava avendo dai rapporti sociali. Tra le tante conclusioni che avevamo raggiunto, la più forte – che è anche la più scontata – verteva sul fatto che l’unico modo per affrontare quel triste periodo di isolamento post-covid era produrre qualcosa di artistico, scrivere, creare. Così ho deciso, qualche mese dopo, di fondare una rivista tutta incentrata sulla contemporaneità, sul mondo che stiamo vivendo, sui tanti “temi” ( che poi non sono proprio temi: è la nostra vita) di attualità che ci circondano, che coinvolgono tutti noi. Mi sono chiesto: cosa stiamo vivendo? Quali sono le nostre emozioni? Dove stiamo andando a finire? E ho deciso di rispondere e far rispondere attraverso la forma del racconto breve. Topsy Kretts (così si chiama la rivista) pubblica 10 racconti brevi al mese. Per molti può sembrare dispersivo come progetto. In realtà è figlio di una grande proliferazione di storie che coinvolge una pluralità di voci, che vanno dal cosiddetto “sottosuolo letterario” al mainstream. Oggi il racconto breve è “politico”, tratta di contesti cui la classe dirigente dovrebbe prendere atto. In questo senso ha ragione Valentina Mira, che nella prefazione di “Tender” si rivolge a Topsy Kretts chiamandola “rivista idealista”.
Che valore ha, per te, il gesto antico di leggere e scrivere storie, in questa epoca complessa?
È un antidoto per la catastrofe. Non è un valore necessariamente “salvifico”, non credo che l’umanità possa salvarsi grazie alla letteratura. Sarebbe anche fin troppo facile, se fosse così. Ma è dall’alba dei tempi che la narrazione aiuta la società a evolversi. Sono le storie a cambiare il corso della Storia. Dice bene De Gregori: “è la gente che fa la Storia”.