Il decano della filosofia italiana, uno dei massimi filosofi viventi, torna in libreria per Adelphi con un corposo e denso volume, Testimoniando il destino.
Si tratta di una summa delle opere precedenti a partire da quando il filosofo si è imposto a livello internazionale nel 1958, procedendo nell’affrontare la crux della filosofia occidentale: l’Essere o il Divenire. Egli vira in maniera netta verso l’eternità dell’Essere, che compie in suo destino nel Nulla, presentandosi come il più parmenideo tra i contemporanei. Questa presa di posizione chiara è di conforto al nostro Occidente che si accapiglia da sempre intorno alla vexata quaestio, frammentandosi in mille rivoli di pensiero. Abbiamo bisogno di tornare all’Assoluto, anche sentendoci assoggettati al Nulla dal quale venimmo e nel quale indubbiamente torneremo. Il testo, che non tradisce certo le aspettative dei tanti lettori, si struttura in quindici capitoli e 19 postille, in cui il filosofo si interroga sui temi a lui più cari: il destino e la scienza; apparire e compimento; finitezza dell’originario; possibilità e volontà della verità; permanenza e resurrezione…Incauti detrattori del suo pensiero lo accusano di essere lì da anni fermo sul Nulla, ma cosa è questo Nulla se non un fertile Nulla/Pieno, promotore delle più approfondite riflessioni sulla dimensione dell’Essere e sul compimento della sua moira? Dobbiamo riconoscere al filosofo che, in un secolo in cui molti voltano le spalle alla Verità filosofica, riempiendo il Nulla severiniano di vuote discettazioni, Severino va al cuore del problema, testimoniando il destino dell’uomo che sta eternamente nel suo Essere, anche nel qui e ora in cui scrivo queste parole che certo sono impermanenti e torneranno nel Nulla.
Ma prima che cadano nell’oblio vorrei avvertire addetti e non ai lavori di quanto sia profondo questo libro che ci fa riflettere su quella condizione eternamente vuota dell’Essere di cui facciamo quotidianamente esperienza tra la terra e il cielo. Il filosofo Severino sta in questa consapevolezza da circa sessanta anni e ha qui raggiunto una pienezza di pensiero inaccessibile ai più; questo “stare nel sapere” ha conseguito uno scopo eccelso, laddove ha fallito l’epistème a partire da Socrate. Il destino cui, infatti, questa è condannata, con il disvelamento sempre incompleto dell’Essere, ha determinato il relativismo conoscitivo, poi tracollato in nichilismo. Qualcuno ha già fatto notare che “stare” ed “episteme” hanno la medesima radice indoeuropea stha e che ci vuole una volontà ferrea e una dedizione smisurata a divulgare questo verbo sul Nulla e su questo eternizzarsi dell’Essere. Per cui Severino mi appare uno dei filosofi più coerenti a livello internazionale, mai pago di divulgare le sue certezze sperimentate: l’uomo non sarebbe l’ombra di un sogno, come ebbe a dire Pindaro, e come credeva la cultura greca, ma vive su questa terra un paradiso di eternità di cui non è affatto consapevole.
Così, l’Essere severiniano non si lascia irretire dalla storia, che è puro accidente, ma rimane eternamente identico a se stesso. Questo guardare in faccia la Verità filosofica in modo fermo lo tiene lontano dall’abisso di Nietzsche, lo corrobora circa la consapevolezza dell’illusorietà del divenire. Lo sguardo frontale sul mondo ricorda tanto il poeta da lui tanto amato e studiato, Leopardi, il quale ne La Ginestra sfida la natura che pone l’uomo di fronte alla sua finitezza, con l’orgoglio di essere poeta/filosofo, che è consapevole del Nulla e dell’orrido abisso nel quale precipiteremo. Ci vuole determinazione nella contemplazione del Nulla, perché interviene a disturbare l’horror vacui e la spinta umana, terribilmente umana, a riempire quel vuoto che si crea e che genera l’angoscia esistenziale. Pensiamo a quanta angoscia di fronte al vuoto e all’insorgere delle infinite possibilità delle possibilità ha avvertito Kierkegaard fino ad arrivare al salto nella fede attraverso un credo quia absurdum. Severino, invece, resta saldo e a quasi 90 anni, che saranno celebrati con una grande festa il 26 febbraio del 2019, può dirsi appagato di quanto realizzato con l’esperienza dell’Eterno, affermando nella nota iniziale al testo: “ Non basta possedere un campo, bisogna coltivarlo. Il campo di cui qui si tratta è l’insieme dei ‘miei scritti’. Un linguaggio, dunque. E anche questo libro intende indicare l’autentica ‘pianura della verità’.” Da cui si evince tutto l’orgoglio severiniano/leopardiano accompagnato dalla consapevolezza di essere uno spirito superiore che spiana la via alla Verità. Severino il Profeta, potrei dire, che ha dissodato il campo della conoscenza e ha trovato un modus cogitandi et vivendi che lo ha strappato all’esilio a cui gli uomini nella maggior parte sono condannati: non essere padroni, diceva Freud, nemmeno nella casa propria. Severino ha invece visto il destino della Verità “ che sta al di sopra di ogni fede e di ogni volontà”, e in Testimoniando il destino ci lascia una eredità di pensiero che nulla potrà cancellare.