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Beatles-The Zapple Diaries di Barry Miles

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Quanti, in questi ultimi cinquant’anni hanno provato a grattare sotto la superficie del fantastico mondo dei Beatles, cercando di cavarne fuori particolari inediti, retroscena inquietanti, chicche d’ogni sorta e qualsiasi altra stramberia potesse restituire dei Fab Four un’immagine più veritiera e meno patinata di quella più celebre e celebrata?

In pochi, però, si sono interessati ad un aspetto solo formalmente marginale nella loro vicenda umana e artistica: quello dell’imprenditorialità. E, in special modo, alle “derive” più particolari e spesso sgangherate del medesimo. Perché se è vero che sulla Apple sono stati versati fiumi di inchiostro, in pochi si sono occupati di approfondire la breve, ma non per questo meno avvincente storia della Zapple, sua sottomarca nata con l’intento di licenziare sul mercato discografico musica alternativa al mainstream e, più in generale, materiale audio (e non solo) che fosse completamente fuori dagli schemi.

Eppure, nel corso del suo scarso anno di durata, tra il ’68 e il ‘69, questa specie di label gravitante nell’orbita di Savile Row 3 (la sede storica della Apple) dette il la ad una serie di iniziative che, pur traducendosi materialmente nella realizzazione di soli due dischi ufficiali (“Unfinished music No.2-Life with the Lions” della coppia Lennon/Ono e “Electronic Sound” di George Harrison), in un modo o nell’altro riuscirono a coinvolgere alcuni dei nomi più importanti della scena contro-culturale dell’epoca, contribuendo a rendere ancora più elettrica e genuinamente balzana la Londra di mezzo secolo fa.

A tappare questo buco, ci pensa oggi un cronista d’eccezione, Barry Miles, che della Zapple fu direttore, ma che, soprattutto, rappresenta una delle eminenze più venerate della cultura underground inglese e mondiale. Questo suo “Beatles-The Zapple Diaries” (Jaca Book 2019, pp. 272, € 30, traduzione dall’inglese di Cristiano Screm, con un testo di Enzo Gentile), prendendo le mosse da un periodo immediatamente precedente alla creazione della casa discografica – quando l’autore fu tra i fondatori della celeberrima Indica Books and Gallery (quella, per capirci, dove John Lennon e Yoko Ono si incontrarono per la prima volta) e del noto giornale underground International Times- ci racconta dal di dentro le tappe salienti di questa avventura. Nella quale, come si diceva, trovano posto alcuni personaggi straordinari come Charles Olson, Allen Ginsberg, Lawrence Ferlinghetti, Richard Brautigan, fino a un non ancora iconico Charles Bukowski. Ognuno di loro, venne coinvolto nell’ambizioso progetto di produrre degli spoken-word album, della cui realizzazione Miles si occupò personalmente facendo la spola tra Inghilterra e Stati Uniti. E, ça va sans dire, ognuna di queste circostanze di lavoro, rappresenta per l’autore un’opportunità per regalarci non certo un freddo resoconto riguardante il making of del prodotto, ma un indimenticabile ritratto a tutto tondo di questi fuoriclasse della letteratura beat e dintorni. Entriamo quindi con lui nella stramba abitazione-fattoria senza energia elettrica dove Ginsberg viveva insieme a Peter Orlovsky. O nell’appartamento stracolmo di libri e riviste di Olson. O, certo, nella degradata periferia losangelina tanto cara a Bukowski, dove il poeta-narratore di Andernach conduce (pur lavorando ancora alle poste) quell’esistenza brada che verrà poi plasmata nei suoi indimenticabili scritti (e che Miles ritrae con grande partecipazione sentimentale nel capitolo a lui dedicato).

Tra le pagine dell’opera, trovano poi posto a vario titolo anche altri indimenticabili protagonisti di quella straordinaria stagione, come William Borroughs o Frank Zappa o lo zoccolo duro degli Hell’s Angels più oltranzisti in trasferta in terra d’Albione, a completare un affresco davvero indimenticabile.

E infine, ovviamente, brilla di luce propria tutto ciò che riguarda i Baronetti, catturati da una prospettiva come si diceva non battuta che ci permette di scoprire in quale modo, pur non perdendo di vista il focus della loro attività principale, essi tentavano di occuparsi di affari o si dilettavano in un mecenatismo più o meno consapevole. Soprattutto, ce li restituisce in un dedalo di continui episodi extra-palco, magari eccitati dalla possibilità di creare un nuovo modo di comunicare o di immaginare musica; o semplicemente alla mercé della loro grandezza, della gigantesca bolla di successo, all’interno della quale, tra stranezze e più o meno candide ideologie, fra infatuazioni brucianti e repentine noie, vivevano una vita sempre spesa al massimo che si rifletteva nella “gestione” assolutamente non convenzionale della Apple, una casa discografica che, all’inizio della sua tormentata storia, fu non solo un’impresa commerciale, ma un vero e proprio universo sociale all’interno del quale si mossero gli uomini e le donne più interessanti della Londra (e non solo) di quegli anni.

Insomma, “Beatles – The Zapple Diaries” (che beneficia tra l’altro di una pregevole edizione corredata anche da foto – meravigliose quelle di Bukowski!, locandine e flyers d’antan) è un volume consigliatissimo non solo agli irriducibili sostenitori del quartetto di Let it be e di Helter skelter, ma a tutti coloro che continuano a guardare agli anni Sessanta come l’irripetibile età dell’oro della storia contemporanea.

Notevole.

Beatles-The Zapple Diaries (Jaca Book 2019), pp.272, € 30, traduzione dall’inglese di Cristiano Screm, con un testo di Enzo Gentile)

www.domenicoparis.it

Leggi anche l’intervista a Peter Hook.

Beatles-The Zapple Diaries
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