Nel luglio del 1938, lo scrittore americano Thomas Wolfe fu colpito da polmonite e portato in ospedale. Gli fu diagnosticata una tubercolosi cerebrale, dalla quale non si sarebbe mai ripreso. Wolfe morì il 15 settembre, a soli 37 anni.
Un mese prima della sua morte, mentre giaceva in ospedale, Wolfe scrisse al suo vecchio editore Maxwell Perkins, un tempo caro amico con il quale aveva litigato nel 1936 ma che amava ancora profondamente. Dopo la morte di Wolfe, Perkins ricevette una lettera da un’altra delle sue autrici, Marjorie Kinnan Rawlings, che era a conoscenza del dolore che provava e alla quale Perkins aveva mostrato l’ultima missiva di Wolfe.
Carlo Tortarolo
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Ospedale Providence
Seattle, Washington
12 agosto 1938
Caro Max:
Lo faccio di nascosto, contro gli ordini, ma “ho un presentimento” e volevo scriverti queste parole.
Ho fatto un lungo viaggio e sono stato in un paese sconosciuto, e ho visto l’uomo nero molto da vicino; e non credo di averne avuto troppa paura, ma tanta mortalità si aggrappava ancora a me – volevo disperatamente vivere e lo voglio ancora, e ho pensato a tutti voi mille volte, e volevo rivedervi, e c’era l’angoscia impossibile e il rimpianto di tutto il lavoro che non avevo fatto, di tutto il lavoro che dovevo fare – e ora so di essere solo un granello di polvere, e mi sento come se si fosse aperta una grande finestra sulla vita che prima non conoscevo – e se ne uscirò, spero in Dio di essere un uomo migliore, e in qualche strano modo che non so spiegare, so di essere un uomo più profondo e più saggio. Se mi rimetto in piedi e me ne vado da qui, passeranno mesi prima che torni, ma se mi rimetto in piedi, tornerò.
Qualunque cosa accada – ho avuto questo “presentimento” e volevo scriverti per dirti che, qualunque cosa accada o sia accaduta, penserò sempre a te e proverò per te lo stesso sentimento che provai quel 4 luglio di tre anni fa, quando mi incontrasti al battello, e uscimmo al caffè sul fiume e bevemmo qualcosa e poi andammo in cima all’alto edificio, e tutta la stranezza e la gloria e la potenza della vita e della città erano sotto di te.
Sempre vostro,
Tom
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Hawthorne, Florida
21 settembre 1938
Caro Max:
Sono addolorato per te da quando ho saputo della morte di Tom. Sono addolorato anche per la perdita certa del lavoro che avrebbe indubbiamente fatto, perché la sua lettera molto toccante a te mostra un castigo e un addolcimento di quel grande ego diffusivo mezzo matto, che sarebbe stato una garanzia dell’autodisciplina letteraria che tutti noi volevamo per lui. Sembra che ognuno di noi possa arrivare solo fino a un certo punto della sua saggezza e del suo intuito, e poi, per un motivo o per l’altro, finisce. E nessuno può riprendere da dove un altro ha lasciato. Nessuno può trarre profitto da tutto ciò che Tom era arrivato a imparare, con tanta tortura per sé e per gli altri. Proprio come le civiltà non imparano mai da altre civiltà, ma devono costruirsi in modo agonizzante, commettendo sempre gli stessi errori, senza mai alcun progresso cumulativo.
So quanto devi essere contenta di non aver mai ritirato la tua bontà personale da Tom, anche quando gli altri erano amareggiati per te.
È strano che una personalità così vivace e senziente come Tom sapesse o intuisse di essere arrivato al grande muro. Deve aver sentito molto più della maggior parte di noi il ritiro della forza cosmica dalla sua unità di vita individuale. Quest’estate ho sentito la cosa per me stesso, sapendo – e lo so ancora – che se avessi fatto quello che avevo programmato non sarei passato. Ho sentito anche la tregua, e sono ancora perplesso. È come l’uragano previsto per la costa della Florida l’altro giorno, che improvvisamente ha deviato dal suo percorso e si è diretto altrove. È tutto casuale e fortuito, eppure perché spesso lo si sa in anticipo?
Ho pensato molto a te da quando ho saputo, e spero che tu possa accettarlo senza troppo dolore.
Marjorie