Nel novembre del 2020 usciva “Timidi messaggi per ragazze cifrate ” di Ferruccio Mazzanti per la casa editrice Wojtek Edizioni di Pomigliano D’Arco. Il 10 maggio scorso è uscito il secondo romanzo dello scrittore fiorentino, M.C., sempre nella stessa Collana Orso Bruno.
Ferruccio Mazzanti, una laurea in Filosofia con una tesi sul rapporto tra mass media e letteratura contemporanea, è cofondatore delle riviste In Fuga dalla Bocciofila e Il mondo o niente e ha pubblicato vari racconti su riviste letterarie cartacee e on-line.
Questo è il tuo secondo romanzo dopo “Timidi messaggi per ragazze cifrate”. Partirei col chiederti come entrare col giusto passo in questo romanzo e se ci porti abche nella officina di lavorazione del libro, raccontandoci, poi, più in generale come è nata l’idea e il percorso fatto dopo l’esordio?
Alcune parti di M.C. erano racconti che avevo pubblicato più o meno nel 2015 su una rivista di Roma a cui voglio molto bene, ovvero Verde Rivista. In quel periodo lavoravo presso una Fondazione culturale. Ero entrato in quel mondo pensando che avrei effettivamente lavorato a stretto contatto con la cultura, ma ovviamente le mie aspettative andarono ampiamente disattese. Sto un po’ generalizzando e quindi quello che sto per dire è molto parziale, ma fu piuttosto sconvolgente per me scoprire che quello che si vede dall’esterno, come fruitori, di molte realtà culturali è in realtà una facciata, perché spesso la cultura viene considerata dagli addetti ai lavori come una merce tra le tante, niente di più. Non dico che non si debbano guadagnare dei soldi in questo ambito, ma i compromessi che spesso vengono fatti modificano così radicalmente il senso del lavoro culturale che forse bisognerebbe fermarci a riflettere un attimo su quel che resta di una determinata opera, di un determinato evento se li ripuliamo da tutti gli intenti mercantili.
Quel materiale che avevo scritto in quel periodo era molto caotico, senza un vero e proprio filo conduttore, ma a me sembrava che ci fossero alcuni spunti che rimanevano vivi e interessanti se sviluppati in un tessuto narrativo più complesso, così, quando pochi mesi dopo l’uscita di “Timidi messaggi per ragazze cifrate” gli editor di Wojtek Edizioni mi hanno detto che li potevo considerare come una specie di seconda casa, mi sono detto che avrei provato a proporgli questo libro, con la premessa che ci avrei lavorato sopra. Dunque ho iniziato a selezionare quelle parti che secondo me avevano un qualche valore letterario. Mi erano rimaste poco più di una cinquantina di cartelle, poche delle quali consecutive e questo è stato un grande vantaggio perché mi ha spinto a creare un percorso che mi permettesse di congiungere i vari pezzi che mi erano rimasti. Mentre scrivevo tutti gli incastri, mi sono venuti in mente tutti i lavori che ho fatto nella mia vita e le sensazioni che provavo, a volte piacevoli e divertenti, spesso pure molto educative, ma altre volte claustrofobiche e dolorose. Così ho cercato di trovare le giuste metafore che potessero rendere l’idea di come ci si sente a volte a essere solo un pezzo di un ingranaggio, oltretutto pure interscambiabile, o a dimenticarsi di se stessi a causa degli impegni o a disinteressarsi degli altri pur di ottenere un risultato. Inoltre un mio caro amico stava lavorando presso un’ennesima azienda culturale fiorentina e il suo datore di lavoro era una vera e propria testa di cazzo, lo posso confermare personalmente perché anche io ho lavorato alle sue dipendenze. Questo mio amico che aveva un contratto a tempo indeterminato (cosa che io in vita mia non ho mai avuto) a un certo punto del 2022 è scoppiato e si è licenziato, oltrettutto vincendo la causa contro il suo ex capo, ma senza avere una ruota di scorta lavorativa. Mi sono domandato: ma oggi quante persone con un contratto a tempo indeterminato in un’età compresa tra i 30 e i 40 anni hanno il coraggio di licenziarsi senza avere già un altro lavoro? Cosa vuol dire e perché le persone si licenziano? Quanto devi essere distrutto per compiere un gesto del genere? Per accettare di essere un disoccupato, nonostante i figli da mantenere? E così ho ripensato a tutte le volte che mi sono licenziato dai vari lavori saltuari o a tempo determinato che ho fatto, alla rabbia che provavo, alle lacrime che versavo di fronte all’idea che forse ero inadatto e che quindi dovevo cambiare qualcosa di me se volevo imparare a sopravvivere in un mondo che ti definisce in base al lavoro che fai, allo stipendio che percepisci.
La trama del libro ruota intorno alla figura interessantissima e misteriosa di M.C., l’invisibile capo della Cosmodemonic che modella i suoi dipendenti in base a regole di omologazione ben precise. Ci racconti nel dettaglio i personaggi e le storie che animano le pagine del libro??
Il romanzo ruota intorno a sedici fasi di produzione del significato del libro stesso, ovvero ogni capitolo è un momento di una catena di montaggio che vorrebbe far prendere consapevolezza al lettore di quello che gli sta accadendo quando lavora, anche se a volte non lo vede, immerso come è nella sua vita, nelle sue emozioni, negli impegni lavorativi, perso in un punto cieco della propria coscienza. Ogni fase della catena di montaggio è dedicata a un personaggio in cui il lettore può più o meno identificarsi in base alla propria esperienza personale. Il primo capitolo è un avvicinamento alla Cosmodemonic, l’azienda dove si svolgono i fatti: il tema ruota intorno alla lotta che la mia generazione, quella nata negli anni 80, ha dovuto compiere per ottenere uno stipendio e quindi per affrancarsi dal nucleo familiare di origine, i sacrifici e la violenza di questa lotta portata avanti per stipendi da fame. Una volta ottenuto un contratto si arriva alla scoperta di cosa dovremo fare, dei nostri compiti effettivi, e se il lavoro ci definisce, di come saremo definiti: questa è la seconda fase. Nella terza ho cercato di mostrare come il nostro capo non guarderà molto al valore e all’importanza del nostro lavoro, perché penserà sempre ai fatti suoi, di come il nostro impegno è sostanzialmente invisibile, e quindi di come lavoreremo fino allo sfinimento, provando addirittura piacere in quello che facciamo, come ho cercato di descrivere nella fase cinque, e di come questo piacere sia fondamentalmente erotico, sessuale, una pulsione libidica che divora tutto, anche quelle persone esterne al lavoro, come il protagonista della fase cinque, che in quanto esterno diventa un mero oggetto funzionale a sviluppare la vista della protagonista della fase sei, una specie di mostro del Reparto Personale che diventa capace di scoprire i punti di rottura dei vari dipendenti, ma senza essere più capace di vedere se stessa, un po’ come dire che se impariamo a guardare gli altri, a volte non sappiamo più guardare noi stessi, che invece è forse la cosa più importante da osservare. Il libro continua così, di concatenamento in concatenamento narrativo e concettuale, passado dal vuoto che si è prodotto al centro della nostra coscienza e dalla graduale metamorfosi del nostro corpo in meri oggetti elettronici o golem che si frantumano sotto il peso delle incombenze, le quali in realtà ormai sono solo vuoti espedienti narrativi, fino a raggiungere il punto di rottura di un individuo, di un lettore, o forse semplicemente il mio personalissimo breaking point o burnout. Alla fine il lettore viene chiamato in causa e così il quindicesimo personaggio del libro sei tu che lo leggi, nella speranza che questo possa spinegere il lettore a guardare se stesso per scoprire cosa è diventato, in cosa è stato trasformato dall’esperienza lavorativa. Il libro si conclude con una Fase fuori Fase, che vorrebbe a suo modo essere un momento liberatorio, un elogio del licenziamento, ma al contempo la descrizione di come sia impossibile vivere fuori dal lavoro, perché dobbiamo sopravvivere e per farlo abbiamo bisogno di soldi, che solo raramente li si guadagna senza lavorare.
Inoltre, dato che ogni Fase è un personaggio differente, un punto di vista differente e un problema differente, mi sembrava assurdo che lo stile, i generi usati e il tono fossero sempre lo stesso, così ho cercato di trovare l’aspetto strutturale e stilistico più appropriato per ogni capitolo. Spero di esserci riuscito almeno un po’.
Ferruccio ci hai regalato un secondo romanzo originalissimo e spiazzante che tanto si discosta, con la sua mescolanza di generi, stili e linguaggio, dalla media ovvietà che oggi viene pubblicata con grande profusione dalle case editrici. Ci si discosta di poco dagli affari del tinello e dalla mercificazione continua dolore. Seguo, sui social, la pubblicazione mensile dei tuoi contributi sulle letture fatte; da lettore fortissimo, ci spieghi perché sono in pochi a osare e tutti preferiscono mettersi in una rassicurante e controllata comfort zone? Ci elenchi anche i libri e gli autori da abbinare a M.C. nello zaino per l’estate?
Partendo dal presupposto che non credo affatto di essere esterno al fenomeno che sto per descrivere, il problema della standardizzazione delle forme narrative è molto complesso, ma semplificando in modo drammatico, credo che uno dei pricipali problemi dell’essere umano sia la pigrizia, che sta alla base di quella che Adorno e Horkheimer nel 1944 chiamavano Industria culturale (un libro per l’estate potrebbe essere “Dialettica dell’illuminismo”). Mi spiego: quando eravamo uomini delle caverne dovevamo essere sicuri che le energie fossero sufficienti per sopravvivere, dunque sarebbe stato anti economico, quando trovavamo una riserva di cibo sicuro e facile, continuare a cercare altre soluzioni. Le energie che risparmiavamo nel cercare cibo potevano essere adottate in altri modi che ci avrebbero garantito più possibilità di sopravvivenza. Oggi non viviamo più in un ambiente così ostile, lo abbiamo antropofizzato e addomesticato con una radicalità tale che al massimo il problema è diventato l’opposto, ovvero che la natura è sul limite del collasso, ritornando a essere ostile ma per un motivo completamente altro, tuttavia il nostro cervello non ha subito evoluzioni significative dai primi homo sapiens. Una delle facoltà che ci sono rimaste è proprio questa tendenza a risparmiarci, se possibile. Dunque, quando l’Industria Culturale scopre che una determinata forma estetica funziona particolarmente bene, perché andare a cercare altre zone di caccia e raccolta? Oggi io vedo questa tecnica di sopravvivenza come virata in senso negativo, avariata dalla società che abbiamo costruito nei milleni, cioè è diventata appunto pigrizia. Se una cosa funziona, perché prendersi il rischio di fare una cosa che potrebbe non funzionare? Perché sprecare energie in un eventuale fallimento? Il problema però è che in qualche modo la pigrizia ci fa fraintendere il senso dell’arte e quindi anche della letteratura. Io parto dal presupposto che la letteratura è una forma di comunicazione, mentre la pigrizia mi ripete che è una forma di economicizzazione delle mie energie, un modo per ottenere un vantaggio al minor costo possibile. Io credo molto nell’insegnamento di Bataille, per il quale l’arte è invece un dispendio improduttivo (altri due libri per l’estate: “La parte maledetta preceduto dalla nozione di dépense” e “La letteratura e il male”), perché l’arte è il consumo improduttivo di un eccesso di energie, proprio come la natura fa quando si evolve andando a produrre forme sempre più belle e complesse, come sono, ad esempio, i fiori. Perché una pianta dovrebbe consumare tutte quelle energie per realizzare un fiore che è il più bello possibile? Deve avere delle energie in eccesso da dissipare, perché se dovesse usare tutte le energie che ha per sopravvivere non potrebbe permettersi di generare il fiore. Mi si perdoni se parlo per metafore, ma allo stesso modo delle piante dovrebbe fare l’essere umano con l’arte (e con tante altre cose), invece la nostra natura ci spinge a trattenerci, a rimanere nel recinto delle forme sicure, di quelle che posso portarci un vantaggio certificato. Si potrebbe obiettare che anche la pianta si cristallizza in forme funzionali, non è che ogni roseto crea rose dalle forme così diverse le une dalle altre, ma il punto è che si è passati da un’idea dell’arte come dissipazione, a un’idea dell’arte come Industria e produzione, quindi da una distruzione di energia a uno stoccaggio di energia e se vogliamo anche di potere. Si è passati da: “brucerò questa energia per realizzare un libro” a “quanta energia e potere metterò da parte una volta scritto un libro?”. Credo che questo meccanismo di stoccaggio, questa pigra tendenza a non uscire dalla comfort zone, non aiuti le persone a cercare altre tipologie e forme di pensiero e se vogliamo anche di creatività. E l’Industria culturale perché mai dovrebbe prendersi rischi? Il suo scopo, la sua mission, non è innovare, ma monetizzare, cioè trasformare in ricchezza il lavoro creativo altrui, immagazzinare il guadagno prodotto dal dispendio altrui. Quindi l’Industria culturale per definizione pretende l’omologazione e la standardizzazione dei prodotti, spingendo in tutti i modi le persone a essere pigre. Ovviamente in quanto essere umano inserito in questo contesto storico e culturale, mi ritengo altrettanto colpevole di tutto quello che ho appena detto.
I libri da abbinare a M.C. per questa estate sono innumerevoli. Tra quelli di filosofia ne citerò solo altri tre: “Mille piani” di Deleuze e Guattari, “Eros e civiltà” di Herbert Marcuse e il “Tractatus locico-philosophicus” di Ludwig Wittgenstein. Per quanto riguarda i romanzi ne consiglierò soltanto tre, cioè sei: “La trilogia della crocifissione rosea” (Sexus, Plexus, Nexus) di Henry Miller, “Una giornata di Ivan Denisovič” di Aleksandr Solženicyn e “Mattatoio n 5” di Kurt Vonnegut.
Buona Lettura di “M. C.” di Ferruccio Mazzanti ma anche dei magnifici libri che ci ha suggerito.
Antonello Saiz