Quando la casa editrice Italo Svevo si impegna a pubblicare un testo l’unico risultato possibile è un libro di qualità. Il progetto è un nobile ibrido, moderno nelle proposte narrative e non – Spirdu di Orazio Labbate è un romanzo metafisico e horror, per esempio – ma anche antico visto che i libri vengono proposti in un formato “tascabile” di matrice aldina, per omaggiare il grande editore veneziano Aldo Manuzio. Oltre i materiali di pregio e la cura redazionale, ormai tipica, i libri presentano pagine intonse e l’attento lettore dovrà minunziosamente aprire ogni pagina come meglio crede. Un gioco editoriale, o forse una dolce metafora dell’appropriarsi davvero del libro, di renderlo un unicum tra tanti.
Nel già variegato catalogo si aggiunge un altro testo di pregio, ovvero Le memoriette del buontempo del giornalista e scrittore Tito A. Spagnol, articolista e reporter di testate come Il Corriere della Sera, Pan, Omnibus e confezionò uno squisito reportage sulla Hollywood di fine anni ’20. Fine traduttore, regista occasionale di film muti ma soprattutto instacanbile memorialista, infatti dopo la seconda guerra mondiale l’attività intellettuale fluì tutta nella stesura della sua aneddotica autobiografica.
Le memoriette del buontempo raccolgono gli episodi più mondani, rocamboleschi e bizzarri della vita di Spagnol durante la sua esperienza statunitense, delle sue disavventure allucinogene tra frontiere della mente e paesaggi rurali, sullo sfondo c’è un Messico zoppicante per la sua rivoluzione fallita, una Hollywood che fagocita tutto e tutti nella sua corsa a monopolizzare lo showbusiness americano, una California che si erge da un cumulo di ideali, droghe e rapine a mano armata. Tito A. Spagnol diventa il reporter del suo peregrinare, un uomo fatto di sogni nel tempo tra le due più grandi guerre della storia umana.
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Cristiano Saccoccia
Appena deposta la valigia in albergo, sono uscito a piedi. Roma vista da Trinità dei Monti è assai più suggestiva in cartolina illustrata. Che idea ha avuto Prezzolini di venir a piantare proprio quassù la Libreria della «Voce», in pieno scenario dannunziano. È vero che lo stabile è rotondo, a cupola, qualche cosa che rassomiglia ad un osservatorio astronomico. Chi sa che stelle nuove spera di scoprire! Da piazza di Spagna saliva il frastuono della folla nelle vampate d’aria pregna di questo odore di piscia di cavallo che mi disgusta. La gente che si incontra ha un’aria contenta. Non si direbbe che è il 1° maggio. Nessuno canta l’inno dei lavoratori. A Firenze, stamane, non si sentiva altro. Qui non devono prendersela calda per nessuna cosa. Mario sostiene che è il vino greve che intorpidisce i romani. Ma quelli di una volta dovevano pur berlo uguale, e non erano così. Perché poi egli creda che Roma sia la città adatta a me, non sono arrivato a intenderlo in queste poche ore. Mi pare che sia proprio il contrario. Mario ha delle vedute bizzarre sul conto mio. Egli non mi vede che giornalista. Eppure un giornalista, al mio posto, dopo sei ore dal suo arrivo in una città nuova, avrebbe già scodellato un articolo, mentre io non mi sentirei capace di scrivere solo tre righe. Mestiere. Questione di mestiere, lui afferma