“I nuovi sinistrorsi non sono né soldati né attori ma soltanto attori.” Era il 1976 e Tom Wolfe iniziava ad intuire che la politica, fosse di sinistra come di destra, iniziava a trasformarsi in un grande vaudeville, in un teatro di cui Reagan anni dopo sarebbe stato soltanto uno dei tanti attori principali. Wolfe, tra i massimi scrittori contemporanei non solo americani, conosciuto in Italia soprattutto per Il falò delle vanità (poi diventato un film con la regia di Brian De Palma nel 1980), in questo inedito non le manda a dire: si scaglia contro la Generazione Perduta (“un tour postbellico a tariffa ridotta grazie al quale gli americani medi potevano imparare a diventare intellettuali europei”) e, soprattutto nel confronto, tra Stati Uniti ed Europa. Gli Stati Uniti visti come una “terra desolata”, anzi “una terra di desolazione psicologica” governata da “un fascismo sociale” colpevole, a detta dello scrittore, da “un genocidio culturale” e da “una tolleranza repressiva”. Uno sguardo lucidissimo sul nostro presente-assente che conferma tutta la geniale visionarietà di uno scrittore a cui, come minimo, andrebbe dato il Nobel. Non sappiamo se lo accetterebbe, ma di certo troverebbe il modo per farlo ritornare a quello che era: un Premietto intitolato allo scienziato che ha inventato la bomba atomica.
Gian Paolo Serino
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Oh con questa assiduità e devozione la nostra intellighenzia natia ha cercato di… far bene, nel modo giusto! Il modello non è sempre stato l’Inghilterra. Tutt’altro. Con la stessa frequenza è stata la Germania o la Francia o l’Italia o addirittura (sul lato religioso) l’Oriente. Ai vecchi tempi – circa settantacinque anni fa – il giovane intellettuale-bene aveva la probabilità di vedersi offrire in premio un viaggio in Europa… troviamo Jane Addams che si guarisce del proprio malessere a Londra e a Dresda… Lincoln Steffens che frequenta i corsi universitari di Heidelberg e Monaco di Baviera… Mabel Dodge che mette su casa a Firenze… Randolph Bourne che scopre gli “incantevoli villaggi” della Germania e poi ritorna a Bloomfield, New Jersey – Bloomfield, New Jersey? – che ora “sembrava quasi troppo grottescamente squallido e maleodorante per essere vero”. L’impresa di essere un intellettuale e l’ansia di staccarsi dalla vita provinciale incominciarono a divenire indistinguibili. Nel luglio del 1921 Harold Stearns completò la sua antologia intitolata Civiltà negli Stati Uniti – una contraddizione in termini, si affrettò a far rilevare – e salpò per l’Europa. Incominciò l’avventura della Generazione Perduta. Ma che cos’era in realtà la Generazione Perduta? Era un tour postbellico a tariffa ridotta grazie al quale anche gli americani medi, non soltanto i Bourne e gli Steffens, potevano imparare come si diventa intellettuali europei, preferibilmente francesi. L’intellettuale europeo! Che personaggio meraviglioso! Un cinico brillante, anzi abbagliante, stagliato come una scultura Miklos Art Deco di bronzo e oro levigati contro le macerie fumanti dell’Europa dopa la Grande Guerra. L’intellettuale americano fece del suo meglio. Poteva stagliarsi contro un fondale di… beh, non esattamente di macerie… ma di semplicioneria, lo Stato Gregge, gli Stati Uniti del Puritanesimo, del Filisteismo, della Ruberia Organizzata, della Cupidigia, e del grande Voltolamento del Porco in Brago. Era senz’ombra di dubbio una terra di desolazione psicologica. Per i cinquant’anni successivi, da allora a oggi, con abilità crescente, l’intellettuale americano fu in grado di compiere questa difficile impresa, che si potrebbe descrivere come il Pareggio Aggettivale. Gli intellettuali europei hanno una vera terra desolata? Bene, noi abbiamo una terra desolata psicologicamente. Hanno un vero fascismo? Bene, noi abbiamo un fascismo sociale (frase favorita degli anni Trenta, corretta in “fascismo liberale” negli anni Sessanta). Hanno una vera povertà? Bene, noi abbiamo una povertà relativa (grande Pareggio Aggettivale del 1963 di Micheal Harrington). Hanno un vero genocidio? Bene, noi abbiamo un genocidio culturale (vale a dire, ciò di cui le università si erano rese colpevoli sul finire degli anni Sessanta se non avessero posto in atto una politica di libere ammissioni per i gruppi minoritari).
Bene – d’accordo! Erano difficili, queste conquiste nel campo della logica. Ma ne valeva la pena. Ciò che era divenuto importante sopra ogni altra cosa era quella figura levigata tra le macerie, visione di dolcezza e di luce nel fumante pozzo bituminoso dell’inferno. L’intellettuale era divenuto non tanto un tipo occupazionale quanto uno status. Assomigliava al chierico medioevale, il quale dedicava la maggior parte delle proprie energie a distinguersi dalla folla – che nei tempi moderni, per usare la frase di Revel, va sotto il nome di ceto medio. Voleva analizzare il mondo in modo sistematico? Voleva accrescere la riserva delle conoscenze umane? Non solo non voleva questo, ne disprezzava il concetto, citando l’asserzione di Rosa Luxemburg secondo la quale gli “accademici panciuti” e le loro interminabili monografie e conferenze, il loro gas nervino intellettuale erano estensioni sofisticate della repressione poliziesca. Voleva addirittura cambiare il mondo? Non in modo particolare; era molto più elegante appoggiare cause erotiche, impossibili, come quella delle Pantere Nere. Ciò che contava sopra ogni altra cosa era lo sdegno morale! Questo, e un certo tipo di consumi. Infatti, negli anni Sessanta, non era più necessario produrre letteratura, sapere, o arte – o anche soltanto essere coinvolti in questi argomenti, se non come consumatore – per qualificarsi come intellettuale. Bastava vivere la vie intellectuelle. Un po’ di pane nero in tavola, una dimenticata carta di pegno per CORE, uno stereo e un portadischi pieno di Coltrane e di tutti gli album dei Beatles da Revolver in avanti, bianche pareti, un’immensa Dracaena Marginata, che è messa lì perché i mobili sono tutti talmente spogli e comunque scarsi che senza quell’esemplare di frondosa Victoriana tropicale la stanza sembra vuota, una pila di New York Review of Books che si alza in immusonita montagnola di complesso di colpa d’abbonamento, la convinzione che l’America è materialistica, repressiva, tronfia, e intorpidita dalla sua Maggioranza Silenziosa, che risiede nel cuore della terra, tre cassette da drogheria piene di bottiglie di gassosa incastrate dietro il frigorifero e destinate (un giorno di questi) al Centro di Riciclaggio, una piccola e scomoda vettura europea – e il gioco è praticamente fatto. Sul finire degli anni Settanta sembrava che gli intellettuali americani fossero riusciti finalmente a… pareggiare. Erano scoppiati disordini nei campus e nei ghetti. La guerra del Vietnam si era tramutata in un inferno su scala internazionale. Guerra! Rivoluzione! Imperialismo! Povertà! Ricordo ancora la sinistra gioia con cui l’intellighenzia newyorchese abbracciava i Quattro Cavalieri. La buia notte stava per discendere. Su questo tutti erano d’accordo; ma c’erano alcuni fatti odiosi e inquietanti che gli intellettuali natii, a differenza dei loro mentori europei, avevano grande difficoltà a ignorare. Nel 1976 Lyndon Johnson sarà stato senz’altro il generalissimo dell’imperialismo americano nel sud-est asiatico – ma qui negli Usa i cittadini in una misura davvero sorprendente di libertà di espressione e libertà di dissenso. Per esempio, l’unico grande paese occidentale che consentiva recite pubbliche di MacBird – un dramma in cui Lyndon Johnson assassinava John F. Kennedy per diventare presidente – erano gli Stati Uniti (Lyndon Johnson, presidente). I cittadini di questo baluardo fascista, gli Stati Uniti, inspiegabilmente avevano, ed esercitavano, la più straordinaria libertà politica e i maggiori diritti civili di tutta la storia. Infatti il governo, sotto lo stesso Johnson, aveva dato inizio all’esperimento innovatore di mandare organizzatori nei ghetti – nella fase di Azione Comunitaria del programma antipovertà – per mobilitare i gruppi minoritari a insorgere contro il governo ed esigere una fetta più grossa della torta. (I gruppi minoritari non se lo fecero dire due volte). Le popolazioni di colore erano molto più avanti sulla strada dell’uguaglianza – per ciò che concerneva i diritti, impieghi, redditi, o accettazione sociale – negli Stati Uniti di quanto non lo fossero i nordafricani, i portoghesi, i senegalesi, i pakistani e i giamaicani d’Europa. Nel 1966 l’Inghilterra si autocongratulò per la nomina del suo primo poliziotto di colore (un pakistano di Coventry). Frattanto, i giovani Usa – sotto forma di Generazione Psichedelica o di Figli dei Fiori – si abbandonavano liberamente a orge sfrenate che erano l’invidia dei giovani di tutto il mondo. In breve, la libertà era nell’aria come uno stormo di uccelli. Come dunque poteva essere fascista? Questo problema portò a, forse, il massimo Pareggio Aggettivale di tutti i tempi: la dottrina della “tolleranza repressiva” di Herbert Marcuse. Altri paesi avevano una repressione reale? Ebbene, noi avevamo l’opposto, la tolleranza repressiva. Si trattava di un sistema insidioso mediante il quale il governo concedeva libertà personali insignificanti per narcotizzare il dolore della repressione classica, che soltanto il socialismo poteva guarire. Meraviglioso! Praticamente perfetto! E tuttavia persino nel momento di così squisite raffinatezze, le cose si ostinavano ad andare storte. Si è presentato un altro fatto inquietante, che complica seriamente il così a lungo accarezzato sogno di socialismo. Questo fatto inquietante può meglio essere assunto in un nome: Solgenitsin.