Estate, Roma, Ennio Flaiano. Il trittico di un diario estivo nato quasi per caso.
Tommaso Pincio cammina per le strade della città eterna e di colpo ci troviamo catapultati in un’estate del secolo scorso. Roma e la stagione per eccellenza, quella che si comincia a rimpiangere prima ancora che finisca e che si attende durante tutte le altre, l’unica in grado di restituirci l’anima di questa capitale che sembra esistere solo per «essere amata, figurarsi amare».
«Non avevo deciso in partenza che questo libro dovesse prendere la forma di un diario. È capitato. Forse perché era estate e lo stillicidio di una stagione che sembra esistere per finire mi ha fatto sentire particolarmente fraterna la malinconia di Flaiano. O forse perché Flaiano scriveva giorno per giorno o almeno tendeva sempre alla forma del diario, dell’appunto».
La flânerie di Pincio è dettata dalla volontà di raccontare e ricordare un uomo, prima ancora che uno sceneggiatore, scrittore, giornalista e umorista: Ennio Flaiano poeta “segreto” e spesso imbronciato che con Roma ha sempre avuto un rapporto travagliato. “Amorodio-odiamore” sono i termini che ricorrono nel libro per descrivere ciò che prova verso questa città, sentimenti contrastanti che «non vanno pesati sui piatti di una bilancia ma su quelli del tempo».
Da un lato infatti, c’è il ricordo del Flaiano giovane e la sua innegabile fascinazione per gli anni trascorsi girando a caso la notte nei caffè, nei cortili delle ville silenziose, per le strade di quella che considera “la sua vera città”, una Roma “immensamente bella” dove anche una sera di pioggia in autunno può regalare un paesaggio mai visto prima; dall’altro, la delusione dell’amico Fellini, del mondo cinematografico in generale, le sciagure familiari celate, la lotta contro i regimi fascisti e la mortificazione di un successo che arranca, in cui non Flaiano non si riconosce.
Un esempio lampante di quella sua perenne amarezza interiore lo si vedrà la notte del 5 luglio 1947, alla premiazione del primo Strega, in quello scatto che ritrae Flaiano con un braccio alzato a fatica e gli occhi bassi di chi si sente fuori posto. Una battuta pronunciata di fretta, il ritorno a casa in anticipo con un randagio trovato lungo la strada, alle spalle l’Hotel de la Ville, i flash dei paparazzi e i sorrisi di circostanza. Un mondo, quello dei salottini culturali benpensanti, che a Flaiano è sempre andato stretto, «il dubbio che ogni successo fosse un malinteso e che lo fosse particolarmente nel suo caso».
Un peregrinare intimo e suggestivo dunque, attraverso strade ed epoche che si sovrappongono per fondersi e separarsi di nuovo, superando edicole, cinema, rifugi di evasione cari all’autore che lentamente si rivela attraverso la malinconia dell’anemoia per un mondo che non c’è più.
«Sono luoghi dilatati, ma non tanto per tendere a una dimensione onirica pure presente, quanto per poter spaziare nel tempo e nello spazio. Tutto è panorama ovvero schermo ovvero cinema».
Tommaso Pincio indaga l’autenticità del ricordo mentre si stupisce del funzionamento della metropolitana anche a Ferragosto, con quello stesso autentico stupore che traspare mentre si interroga sulla pigrizia di Flaiano, sulla sua innata capacità di rendersi prezioso con la sola presenza. Sbagliato però, sarebbe pensare a questo diario marziano come a un libro su Ennio Flaiano, semmai a un libro-mondo con Ennio Flaiano.
Memorie e attualità si alternano in paragrafi brevi che hanno la forma di appunti: i luoghi sono scenari barocchi, condomini svuotati, bar in cui tornare dopo decenni per scoprire che niente è cambiato, come quel tale che è tornato dalla Cina solo per sentirsi dire «hai cambiato caffè?» Dagli amici che non si erano mai spostati di lì. Anche in Pincio, così come in Flaiano, aleggia quest’aria di fiaba felliniana che tende a discostarsi dalla realtà, un porsi di lato cogliendone l’assurdo e talvolta il ridicolo, con quello stesso stordimento disincantato che aveva il marziano sbarcato a Villa Borghese nel racconto che dà il titolo all’opera.
C’è un senso di malinconica evasione che unisce le pagine. Quella nostalgia amara che risale alla gola mentre si sfoglia un vecchio album di foto e ci si domanda se davvero prima era tutto meglio, tutto possibile, più vivace, o se forse è solo la sfocatura iridescente del ricordo a edulcorare l’immagine.
Pincio, come Flaiano, rifugge la forma classica, gli esercizi di stile, le lunghe descrizioni, affidandosi a un flusso di pensiero intriso di illuminazioni, prese di posizione ed epifanie dettate dalla fugacità dell’istante, nel tentativo inesauribile di dare forma a ciò che si riceve dal passato.
«Era pigro perché dello scrivere mal tollerava le seccature e in generale la scrittura servile. Il lavoro sporco che un romanzo comporta…».
Il timore di non avere una vocazione narrativa portava Flaiano a tenersi alla larga dagli intrecci e le seccature di una narrazione romanzata, seppure i suoi scritti contenessero stralci di incantevole bellezza e Pincio ripercorre, anacronisticamente, quella stessa bellezza, in una Roma istrionica e caciarona che ha sostituito le edicole notturne con il chiacchiericcio dei social network, regalandoci scorci intimisti in cui la malinconia ha il profumo delle cose che finiscono.
«Ora che ho una certa età e le storie fatte di intrecci e colpi di scena mi sembrano tutte uguali e comunque secondarie, leggere una bella descrizione è diventato un piacere prezioso».
E quello stesso piacere traspare centellinando queste pagine, a tratti ironiche, a tratti commoventi, che si svincolano dal genere per toccare vertigini letterarie ben più alte.
Non solo Flaiano, quindi, nella Roma di Pincio, c’è spazio per alieni, fantasmi e persino vampiri (cinematografici e letterari), tutti in cammino assieme verso Villa Borghese, al riparo sotto le foglie dei platani, godendo degli ultimi bagliori di una Dolce vita che non smette di ammaliare.
«Fra noi e le cose si frappone la luce», scrive Emil Cioran in un verso citato a fine libro e mi piace pensare che la stessa cosa possa accadere anche fra noi e i ricordi, o fra noi e le parole, perché in queste pagine, di luce, ne ho scorta parecchia.
Stefano Bonazzi
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Diario di un’estate marziana
Tommaso Pincio
Giulio Perrone Editore
16,00 euro — 180 pagine