“I giornalisti raccontano le cose che accadono, i poeti raccontano le cose che sono”. Era la fine degli anni Ottanta e queste sono parole di Paolo Pietroni, fondatore e direttore, all’epoca, di Sette, inserto settimanale del Corriere della Sera. Una probabile risposta all’affermazione di Antonio Porta, pseudonimo del poeta Leo Paolazzi (Vicenza 1935 – Roma 1989), al quale aveva chiesto di aprire una rubrica: “Guarda che io non porto il telecomando sotto la camicia, e schiaccio un pulsante quando faccio il poeta, un altro pulsante quando faccio il giornalista, un altro ancora quando vado in bicicletta”. Antonio Porta era un poeta ma anche critico letterario, fondatore di varie riviste («Malebolge», «Quindici», «Alfabeta», «Cavallo di Troia», «La Gola»), giornalista, autore teatrale, un comunicatore a tutto tondo.
I suoi scritti furono inseriti nell’antologia «I novissimi», curata da Alfredo Giuliani, e insieme a Pagliarani, Balestrini, Sanguineti formò il “Gruppo 63”, l’avanguardia poetica italiana sostenuta da Umberto Eco.
Nei giorni scorsi, alla Libreria Popolare di via Tadino, a Milano, è stata presentata la raccolta postuma «Abbiamo da tirar fuori la vita. Scritti per ‘Sette’ e il ‘Corriere della Sera’ (1988-1989)».
Il volume, edito dall’editore svizzero Cenobio e curato da Daniele Bernardi, con interventi di Paolo Pietroni, Giovanni Raboni e Giancarlo Majorino, è un’occasione, attraverso la scrittura di Porta, per respirare l’atmosfera culturale di quegli anni, sentirne la nostalgia e percepirne anche l’attualità.
Porta trafora il tempo. C’è l’odore della Milano da bere di quegli anni, quando si respirava un presente certo e duraturo, e ci sono i temi che hanno puntellato la politica più recente: dalle coppie di fatto all’eutanasia, dalla droga all’educazione, dall’aborto all’inquinamento, dal razzismo all’omosessualità, senza tralasciare pezzi sulla poesia e recensioni di film. Tra queste, la recensione di Ultimo tango a Parigi, in occasione del suo approdo sul piccolo schermo. Un ventaglio di proposte che Porta non esitava a presentare al suo direttore e che hanno occupato di settimana in settimana le colonne di Sette e del Corriere.
Antonio Porta fagocitava la scrittura, amava mettere il linguaggio in disordine e ne intarsiava uno tutto suo, facendone una voce. “Si alzava prestissimo – ricorda la moglie del poeta, Rosemary Liedl – e leggeva i giornali, io preparavo i bambini, lui li accompagnava a scuola, faceva la spesa (in questo era più bravo di me), poi tornava a casa e scriveva. Nel pomeriggio andava ad Alfabeta, rivista di cui era direttore. Io archiviavo. Aveva sette scrivanie – continua – dove raggruppava gli argomenti di cui contemporaneamente si stava occupando. Aveva già allora un archivio fittissimo e io, dopo oltre vent’anni, mi muovo ancora tra le sue carte”.
Giovanni Raboni, non a caso, ha riunito le recensioni di poesia dell’amico intitolandole, in un volume postumo, «Il progetto infinito» (Edizioni Fondo Pier Paolo Pasolini, 1991).
Meno conosciuta è la produzione legata al suo impegno civile. Da qui l’idea del libro.
“Se mi dovessero chiedere perché ho voluto fortemente occuparmi della curatela e della pubblicazione di questi scritti – dichiara Daniele Bernardi – risponderei che volevo leggere questo libro, volevo che questo libro esistesse e che qualcuno lo potesse sfogliare, che io stesso lo potessi sfogliare. Io credo che oggi, nel mare della chiacchiera, la parola di un poeta giornalista sia l’unica che valga la pena di essere ascoltata. Come ho scritto nell’introduzione al volume, i poeti non scrivono come gli altri. Qualunque argomento trattino, lo fanno in un modo del tutto particolare”.
Ma cosa distinguerebbe lo sguardo di un poeta da quello di un giornalista? Un approccio puramente professionale?
“I poeti, strano a dirsi, quando devono raccontare qualcosa – afferma Bernardi – non usano parole difficili. Sono imprevedibili, originali e parlano per immagini. Sono restii a farsi irretire dalle lobby della politica e del giornalismo. Il loro punto di vista, in altre parole, si distingue nettamente da quello del giornalismo ufficiale che vuole giustificare il proprio operato, appellandosi ad una verità o, peggio ancora, al senso comune e all’ovvio. Il loro è uno sguardo altro, politicamente ed eticamente interessante”.
Antonio Porta, da poeta qual era, ha saputo vedere oltre il suo presente, ponendo interrogativi – diventati in seguito dibattiti – senza mai ergersi a custode delle risposte.
In un pezzo sull’eutanasia, si chiede se non sia un atto d’amore supremo concedere la grazia della morte a chi la chiede come ultimo atto di pietà. Parole impegnative che anticipano temi oggi diventati attualissimi.
“Non sono d’accordo con molte idee di Porta – dichiara Pietro Montorfani, direttore di Cenobio – ma riconosco la lucidità con cui poneva certi interrogativi”.
“In tutta la sua vita – afferma Pier Luigi Vercesi, l’attuale direttore di Sette – Porta cercò di vivere il rapporto con gli altri e raccontarlo. C’era una profonda umiltà nel filtrare i fatti che gli consentiva di raccontarli con semplicità, andando alla sintesi e togliendo quella patina di sovrastruttura spesso presente oggi. Gli anni in cui scrisse Antonio Porta – continua Vercesi – erano anni di militanza. Giornalisti, scrittori, poeti non si allineavano e nemmeno lui lo ha fatto”.
“Un libro necessario – afferma Giuseppe Lupo, scrittore e docente di Letteratura contemporanea, all’Università Cattolica di Milano – da percorrere, specchio di un’epoca. Se dovessi recensirlo, direi che è un libro al futuro anteriore”.