Mettersi a nudo o mai spogliarsi del tutto?
Da bambino avevo paura del buio, ora che sto ingrassando, temo la luce.
Mentre scrivo quest’articolo sono in mutande, seduto su uno sgabello igienizzato con amuchina e ho la sensazione che tra poco il mio corpo ingrasserà e non sarà più tonico.
Quindi mi godo gli ultimi giorni di gloria, consapevole che prima o poi cederò alla Nutella e finirò sfatto e dipendente dall’ebbrezza di quei minuti in cui la lingua pulirà la crema di nocciole dai denti, poi mi pentirò. È un circolo vizioso, come il sesso occasionale. Pazienza!
Siamo ormai lontani dal pensare che un corpo nudo debba appartenere solo a chi dovesse amarci totalmente, anima compresa. Anzi, diciamo pure che la nudità non riguardi neppure noi stessi: siamo nudi per il progresso, per comunicare, per i social, per l’arte e per la patria. Anche la chiesa ci pretende nudi, ma di altro, e ci riveste di preconcetti e infondate convinzioni chiamandole “fede”.
C’è chi fa l’amore con gli abiti addosso, chi lo fa con sentimento, e chi rimane vergine anche dopo: dilettanti.
È per questa ragione che nello sport solo i professionisti si vestono di tutto punto, gli altri, gli sportivi della domenica, non sono veri atleti: praticano sport, sì… ma a livello “amatoriale”.
Chi fa sesso seriamente deve essere nudo!
La nudità è per professionisti: ci si deve allenare a stare nudi, non è facile come dire ti amo, sposarsi, firmare una polizza assicurativa, o autocertificarsi per dire agli altri quello che noi già sappiamo. Tutte questioni che si basano sulla fiducia reciproca.
La nudità al contrario è univoca e presuppone che sia il vostro corpo a farvi monaco: non gli abiti, l’aspettativa degli altri o un contratto.
Non dico che la nudità si debba ostentare come un traguardo di emancipazione, a nessuno è consentito di non percepirsi all’interno di un contesto sociale: il motivo per cui a teatro vestiamo in un modo e sul lungomare in un altro. Ma tutti dovremmo condividere almeno con noi stessi l’idea della nostra natura corporea.
Non giudico mai e non valuto nessuno per le fattezze del corpo in termini estetici o antropomorfi. Al contrario considero la bellezza parte precipua dell’individuo e non un canone classico o post-illuminista.
Il “come si riempie lo spazio”, sia nel femminile che nel maschile, è di gran lunga più interessante di spalle, addominali, tette e culi.
Tuttavia, non riesco a fare a meno di valutare il mio di corpo, stabilendo il mio stato di forma. Sono un ipocrita.
Giro nudo per casa per ipocrisia non per libertà: per abituarmi ad accettare quello che non mi piace di me.
C’è stato un momento, un attimo infinito, quanto poteva esserlo la scoperta della masturbazione, un attimo in cui mi sentii intrappolato nei miei abiti, con il desiderio realmente puro di spogliarmi e di spogliare.
Era un mese qualunque del 1982 e in tv passava il video di una canzone intitolata, appunto, Colpo di Fulmine.
A cantare e a muoversi era Barbara Boncompagni, nota come la figlia di Boncompagni. Non era particolarmente bella, brava o sexy, e restava in video per circa due minuti e cinquantadue secondi, il tempo della sigla.
Indossava un completino decisamente insolito, forse un avanzo di qualche sceneggiato RAI in costume: tessuti altamente infiammabili neri e oro si intrecciavano sopra le gambe, con pomposi sbuffi seicenteschi su maniche e fianchi. La figlia di Boncompagni sembrava un paggio, con una bandana rossa da pirata legata sopra le microgonne sovrapposte. Un leggings (anzi un pantacollant) sempre sintetico e nero, lasciava intravvedere sinuosi femorali…
La figlia di Boncompagni era l’incrocio perfetto tra la mia infanzia e la pubertà: era vestita come il Corsaro Nero o D’Artagnan o Zorro, ma aveva qualcosa anche di Sandokan. C’era in lei il vissuto dei miei eroi e dei miei carnevali di allora oltre a un corpo femminile ma non troppo.
All’improvviso mi ritrovai con i pantaloni abbassati: la tigre della Malesia, i moschettieri, una spada per il mio regno, uno schermo a tubo catodico, battito del cuore regolare un po’, i femorali, vampira, trappola d’amore non ci casco più, le gambe, più sexy sarò, voglio vedere chi mi dice di no, e wow… cioè: “Che bello!”
Quella fu la mia prima esperienza concreta di touch screen.
Che dire! Forse accadde per il testo ermetico della canzone, o per la magia occulta delle melodie arrangiate da Gianni Boncompagni: quelle tonalità che la Carrà cavalcava con i suoi iconici movimenti nei sogni dei papà.
Ma io ero un bambino, la Carrà la vedevo come una mamma, e non potevo prevedere neanche lontanamente quanto l’acronimo milf avrebbe invaso gli schermi piatti del mio futuro da adulto.
Ognuno dunque s’inventi pure le illusioni che preferisce, la realtà là fuori non piace a nessuno.
Si vive solo una volta, questo ora lo capiamo come se fosse tutto il nostro futuro in gioco e non il Niente del nostro passato.
Interamente nudi o parzialmente vestiti, malinconici e patetici o spregiudicati e disinibiti, toccando lo schermo o i genitali, si va in onda: si gode solo per i desideri.
Siate contenti senza motivo, state soli e se volete sentitevi vivi.
Angelo Orazio Pregoni