L’incanto del Martini: “Prima ancora di bere il contenuto del calice, sentii che qualcosa nella mia vita stava cambiando. Sorseggiai cautamente la bevanda e ne fui definitivamente sedotto. Sentivo contemporaneamente il fuoco dell’alcol e il freddo del liquido”.
Una conclusione malinconica: “Soltanto nel 1978 – quando vedemmo al cinema Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino – capimmo che il mondo, del quale ci eravamo illusi di poter prolungare all’infinito gli anni euforici del dopoguerra, ci era scoppiato in mano, perché quello che era cambiato completamente, in quei trent’anni, era lo spirito dei tempi: quell’ebbrezza che sentivo nell’aria prima ancora di cominciare a bere, ora era sparita. Per me e per i giovani della mia generazione era stato talmente facile essere felici che lo eravamo senza saperlo. Per quelle successive, era talmente facile essere infelici che tutti si accorgevano di esserlo”.
La saggezza di Edgar Allan Poe: “ciò che non cura il brandy è incurabile”.
Dal 6 dicembre è in libreria Ebbrezze. Da Noé al colibrì, da Hemingway al martini di Umberto Cutolo (Jimenez 2024, pp. 140, € 15).
In un turbinio di pensieri e riflessioni, Ebbrezze si presenta come un viaggio affascinante e provocatorio tra alcol e creatività. L’autore esplora il delicato confine tra ebbrezza e ubriachezza, invitando il lettore a riflettere su come queste esperienze possano influenzare l’arte e la vita quotidiana.
Fin dalle prime pagine, il libro si immerge in una disamina storica e culturale, analizzando come figure emblematiche della letteratura e dell’arte, da Edgar Allan Poe a Charles Bukowski, abbiano utilizzato l’alcol come una sorta di musa ispiratrice. La narrazione non glorifica l’abuso, ma piuttosto cerca di comprendere la complessità di queste vite tormentate, oscillanti tra creatività e autodistruzione.
Con uno stile accattivante e coinvolgente, il libro si snoda attraverso aneddoti, citazioni e riflessioni personali, creando un’atmosfera di intimità e connessione con il lettore. La prosa è arricchita da riferimenti a opere letterarie e artistiche, rendendo la lettura non solo informativa ma anche culturalmente stimolante.
Ciò che colpisce di più è la capacità dell’autore di affrontare temi complessi come la ricerca dell’ebbrezza e la sua relazione con l’arte, senza cadere nella trappola della banalizzazione. Ebbrezze invita a un’interrogazione profonda su cosa significhi essere “ebbri” non solo in senso letterale, ma anche metaforico. L’alcol, in questo contesto, diventa un simbolo di libertà, creatività, ma anche di schiavitù e dipendenza.
In definitiva, Ebbrezze è più di un semplice saggio sull’alcol; è un’esplorazione della condizione umana, delle sue fragilità e delle sue aspirazioni. Per chi è in cerca di una lettura stimolante, questo libro rappresenta un’opportunità imperdibile di riflessione e scoperta. Un invito a esplorare le sfumature della vita, dove l’ebbrezza può essere sia una benedizione che una maledizione, ma comunque un’esperienza da vivere intensamente.
Carlo Tortarolo
#
Festa mobile
La gioventù
è ebbrezza
senza vino.
Goethe
Alla fine degli anni Sessanta, avevo poco più di vent’anni e vivevo a Roma, il posto più bello al mondo, alla fine degli anni Sessanta, dove avere poco più di vent’anni.
Godereccia con un profumo di peccato – come si addice a chi ha prosperato per secoli sotto una dittatura religiosa – la Città si crogiolava negli effetti inattesi di un boom economico di cui nessuno aveva immaginato le dimensioni, sprigionando una travolgente voglia di vita, alimentata dal doloroso e ancora fresco, ma sempre più rimosso ricordo degli orrori e delle angosce della guerra. A Roma, in quegli anni, il divertimento, lo svago, lo spasso, il piacere, il diletto, la spensieratezza avevano tanti nomi, ma nessun orario: i ristoranti rimanevano aperti anche fino all’alba per ricevere i clienti più nottambuli (gli attori di teatro e i loro spettatori, protagonisti di una vita notturna chiamata: dopo teatro); le case private di una borghesia che stava ricominciando ad assaggiare il benessere ospitavano nei fine settimana (che non si chiamavano ancora weekend) feste per i figli, dalle quali i genitori venivano accuratamente tenuti lontani, spediti nella casa al mare appena acquistata. Nelle strade – in città e in periferia – le automobili erano sempre più presenti, ma non ancora invadenti, simbolo concreto di una libertà individuale ritrovata e preferita anche a quella politica da pochi anni riconquistata. Le morbide serate romane erano rischiarate da vecchi lampioni in ghisa, sempre più spesso oscurati da insegne di negozi, cinema, teatri, ristoranti, caffè (come si chiamavano allora, ma stavano già per essere cancellati dal più rapido bar).
Soprattutto ristoranti e caffè. American bar specializzati in tutti i cocktail del mondo (specialmente quelli asciutti a base di gin; quelli più dolci a base di rum sono fratelli del più tardivo Mojito) spuntavano come funghi nelle hall degli alberghi o nelle stradine del centro storico, spesso piccoli ambienti a livello strada dove i clienti entravano solo per prendere il bicchiere e portarlo fuori per consumare la bevanda preferita chiacchierando con gli amici su uno striminzito marciapiedi. Si diffondeva così per l’aria, nei locali, nelle strade, in tutto il centro storico della città un’ebbrezza contagiosa di cui l’alcol era solo il liberatore, perché essa era profondamente annidata negli animi di quegli uomini e di quelle donne che turbinavano entusiasti in un carosello incessante, agitandosi gaiamente, senza un motivo che non fosse il godimento del dilagante benessere.
In realtà, come sempre, la svolta – culturale e dunque più profonda – era stata anticipata in quegli stessi luoghi alla fine degli anni Cinquanta dai primi intellettuali che si affacciavano sul dopoguerra. E quando, una decina d’anni dopo, Ennio Flaiano, che di quel movimento culturale era stato uno dei protagonisti, si ritrovò a passare una sera insieme allo scultore Renato Mazzacurati a piazza del Popolo, davanti al caffè Rosati, vedendo quei giovani inutilmente sovreccitati che si muovevano, ridevano, bevevano, chiacchieravano, giostravano fra i tavoli nel dehors del locale, li additò al suo amico e se ne uscì con una delle sue battute più folgoranti: “Li vedi? Credono di essere noi”. Era Roma. E non poteva essere un’altra città. Non era un caso che proprio lì Federico Fellini avesse girato, nel 1960, La dolce vita. A Milano non sarebbe stato possibile. In quella che si avviava a diventare la capitale morale (ed economica) d’Italia, infatti, Luchino Visconti aveva realizzato contemporaneamente Rocco e i suoi fratelli. Altri temi, altri problemi, altri scenari, altro contesto. Milano era già il cuore della borghesia produttiva, Roma il palcoscenico della bisboccia giovanile. E ce n’era per tutti. Nessuno ne era escluso a priori: ricchi o poveri, belli o brutti, avevano tutti il diritto e la possibilità di respirare quell’ebbrezza che dal vino, dai superalcolici, dai cocktail si propagava nell’aria e penetrava nei cuori.
Perché l’ebbrezza – qualunque tipo di ebbrezza – abbatte le barriere di ogni tipo e il mescolamento alcolico dei cocktail era propedeutico al mescolamento sociale delle persone. Era una molla, un motore, un bilanciere. Dava a una parte il coraggio di proporsi e all’altra il coraggio di accettare. Se la politica, in quegli anni, è stata un formidabile ascensore sociale, la spinta alla partecipazione gliel’ha data l’ebbrezza di quei giorni.
Solo che io avevo un problema: ero astemio.