L’imbarazzo di un innocente: “Ma come si fa a dire chi era con te a sparare se a sparare non ci sei andato?, penso, Sì, ci sei andato dicono, mi rendevo sempre più conto che non potevi dissuadere qualcuno che era pienamente convinto che tu c’entrassi, che tu fossi responsabile, che tu sei in definitiva un delinquente e un assassino e un terrorista, come fai a far cambiare idea a un poliziotto, a tre, a quattro a cinque poliziotti che sono lì e che non aspettano altro che tu firmi un verbale che loro hanno redatto, che non aspettano altro che tu ceda, che tu non ce la faccia proprio più e che dica, Va bene, basta, lasciatemi stare, dico tutto, ammetto, parlo, spiffero ogni cosa, Ma cosa?, mi chiedo”.
È in libreria Sei giorni troppo lunghi di Umberto Lucarelli (Milieu edizioni 2024, pp. 107, € 13,50).
Milano, febbraio 1979. Dopo l’omicidio di un gioielliere, i giovani militanti di un collettivo autonomo della Barona vengono accusati. Sotto i riflettori del clima tumultuoso dei tardi anni Settanta, affrontano pestaggi, insulti e interrogatori in questura, seguiti dal trasferimento in carcere e dalle torture.
Questo episodio, oscuro come molti in quel periodo, diventa il fulcro di un romanzo incalzante. In sei giorni intensi, la narrazione si snoda con l’urgenza di preservare la memoria di un’epoca ancora viva nei cuori di coloro che, nonostante le avversità, non hanno mai tradito i propri ideali.
Come liberarsi dal male subito: “È così che germoglia l’odio, pensavo dando la schiena all’ingresso, Se subisci violenza finisci per restituirla in qualche modo, pensavo mentre continuavo ad allontanarmi sempre più velocemente, Germoglia il desiderio di ritorsione, pensavo e mi allontanavo sempre più rapidamente da quel luogo, ma a me l’odio e la ritorsione non mi sono venuti, mi ha raggiunto invece una immensa tristezza e una grande pena per tutti, per noi, per loro, le vittime, gli aguzzini, i carnefici”.
Un libro di dolore e di speranza, che ci invita ad affrontare il Male e il suo mistero calato nella prassi. È un contributo per riflettere sull’inutilità della tortura che raramente serve a individuare un colpevole ma di sicuro fa soffrire inutilmente un innocente.
Carlo Tortarolo
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ERA mattino presto, hanno bussato, mia madre si è alzata per andare ad aprire ma mio padre era già in piedi perché si stava preparando per andare al lavoro, si alza presto, fa il falegname, ha le mani grosse, le mani enormi, ho sempre avuto paura di quelle mani ma per fortuna non mi ha mai dato uno schiaffo, sono sempre stato viziato come un vero figlio uni – co, alto, grosso, come lui, come mia madre, mia madre sì che me le ha sempre date e per assurdo mio padre la fermava, cercava di placarla e di calmarla, ma mia madre quando parte, quando si arrabbia non si ferma più, ebbene io dormivo profondamente, mi sarei svegliato più tardi per andare al liceo, Chi è?, ha chiesto mio padre con un po’ di tremore nella voce, era troppo presto, Quando uno ti chiama troppo presto spesso son disgrazie, diceva mio padre, come quando si riceveva un telegramma, era per avvertire che era morto qualcuno, sento che mia madre mi scuote, mi dice che c’è la polizia, La polizia?, chiedo assonnato, Cosa vuole da me la polizia?, dico, mi alzo e vedo degli uomini senza divisa, uno piuttosto elegante, gli altri modesti, sono gentili, mia madre prepara loro il cafè ancora in vestaglia, si siedono tutti e uno di loro mi tiene d’occhio mentre preparo gli indumenti da indossare: pantaloni di velluto, maglione e eskimo, Deve venire con noi per semplici accertamenti, dice quello elegante che dev’essere il capo, mio padre interviene, dice che deve andare al lavoro – è un uomo di poche parole, parole essenziali, da falegname, ho sempre pensato così da bambi-no: che i falegnami parlassero poco e per questo Geppetto si era costruito un burattino, dice che deve uscire subito ma non capisce perché per dei semplici accertamenti come dicono loro, come hanno appena detto, sia necessario andare a casa della gente alle quattro, alle cinque, alle sei del mattino, Non era sufficiente mandare una comunicazione a mio figlio?, domanda – mi accorgo che questa volta ne mette insieme un bel numero di parole forse per via dello spavento di trovarsi a casa la polizia seppure in borghese, dimessa, apparentemente tranquilla, senza mitra spianati e pistole in pugno come nei film polizieschi che piacciono tanto alla mamma – loro si guardano, i poliziotti, annuiscono, l’elegante sussurra che prendono ordini, che c’è una indagine in corso, di stare tranquillo, un mucchio di altre frasi buttate lì che invece di rassicurare sortiscono l’effetto contrario e mi agitano, sono come una litania, e mio padre esce su questa litania e prima mi dà una pacca sulla spalla e mi guarda dai suoi occhiali nei miei occhiali e ci guardiamo nei riflessi delle lenti e poi va, sento che scende le scale un po’ esitante, sento il suo passo nel silenzio della mattina, un passo che non vorrebbe andare avanti, che vorrebbe tornare in- dietro, e ormai sono vestito e pronto, Bevi un cafè, dice mia madre, Mangia un biscotto, dice mia madre, in un attimo siamo in macchina, ci sono altre auto giù e alzo lo sguardo e scorgo mia madre sul terrazzo ancora con la camicia da notte anche se fuori fa freddo, è inverno, la vedo lì che mi fa un gesto con la mano mentre entro nella vettura e a un tratto mi sento un po’ soffocare, mi sento soffocare, mi viene su il cafè mi torna su anche il biscotto, le macchine non sono della polizia, sono auto normali, gli altri sorridono, sembra che andiamo a un ricevimento, invece ci dirigiamo in questura, e l’uomo elegante mi chiede a bruciapelo ma con gentilezza se sono io l’intellettuale del gruppo, il capo, l’ideologo, mi domanda tutte queste cose che poi è la stessa e le ripete mentre l’autista conduce a tutta velocità la macchina, fa rombare il motore come se dovessimo arrivare in tempo a un appuntamento: Quale gruppo?, chiedo, Il Collettivo?, Il gruppo che ha sparato, risponde, Io non so niente, dico, Io sono uno del Collettivo Autonomo Antifascista Barona, non sono uno che va a sparare, ripeto e mi tolgo gli occhiali e li pulisco col fazzoletto, li pulisco per bene, nervosamente e le mani mi tremano un po’ mentre la macchina corre impazzita e io penso solo e sol- tanto a Valeria, minuta, i seni grandi, il sorriso nel viso tondo da bambina, penso a Valeria e ai baci che ci siamo dati la sera prima, penso a Valeria per non guardare più quelle facce che sembrano gentili ma che non lo sono, si vede che è tutta una recita da quattro soldi, Che cazzo volete da me?, mi viene da dire ma non lo dico, me ne sto con Valeria, le accarezzo il viso, le mani, le tocco lieve i capezzoli, Ti conviene parlare subito, mi interrompe la voce maschile, quella di prima, un po’ meno garbata, sempre cortese ma ferma, dietro la gentilezza inizia a emergere una punta di stizza, un po’ di agro, io guardo Valeria e sto zitto, le infilo la mano tra le cosce e me ne sto muto nell’auto, me la stringo tutta alla faccia loro, le bacio la gola che sa di pomata perché aveva il torcicollo, le spalle e la schiena, Ti conviene parlare subito, ripete la voce, un po’ più aspra ma ancora gentile, Parlare di che?, mi tocca rispondere mentre mi sposto leggermente dal corpo di Valeria proprio ora che è tutta eccitata, Sono pronta, mi dice, come lo dice lei, per invitarmi a entrare.