Vicolo Calusca è un epos, qualcosa che oggi potremmo leggere come una fiaba, o come una volta leggevamo i miti.
Che cosa ci racconta questo mito? Prima di rispondere sarebbe opportuno fare una premessa, cioè questa: il mito ha sempre a che fare con un modo di essere, che è sempre reale e particolare. La filosofia userebbe la parola: ontologia.
Il mito, per ciò, non ha a che fare con la trascendenza. La filosofia, sempre, userebbe qui, invece, la parola metafisica, o la più logora: teologia. Il mito, al contrario, è sempre qui e ora. Lo si tocca. Lo si odora. C’è chi addirittura lo mangia. C’è infatti chi vive di solo mito e non ha quasi bisogno di faticare, cioè di lavorare. Il mito, per tornare alla fiaba di cui diremo, è il solo vero autonomo.
Dunque, dicevamo: di che tratta il mito di Vicolo Calusca? Racconta di un viaggio di alcuni uomini (molti, più esattamente…). Un viaggio durato due lustri. I due lustri che chiudevano il così detto secolo breve. Il muro crolla ben dieci anni prima! Per la precisione: il 7 aprile 1979. Questi uomini avevano la particolarità di portarsi, durante il viaggio, terra; una terra speciale che loro già possedevano, e se la tenevano in tasca, ci giravan dappertutto, sul metrò, a scuola, negli uffici, in galèra, al refurmatòri, e ogni volta che tu o qualcuno ci parlava insieme, te la tiravano fuori. Te la sortìven dalla sacòcia e ti dicevano: Tò, la vedi adesso o no? Noi andiamo là. …Senza chiederti, tra l’altro: te vègnet? …propri al cuntràri dei gesuiti!
Frase quella, che, se all’inizio, di primo acchito, poteva suonare sibillina, dopo che la sentivi qualche centinaia di volte da tutti quelli li, ti convincevi veramente: te pareva la cosa pü se vèra del mund. Quelli li, ben inteso, cioè i protagonisti del Calusca, avevano un nome, un nome comune, si chiamavano: COMPAGNI. E che cosa facevi allora? Ti univi, se non eri un fesso, ai compagni, va bene?!
Più diplomaticamente: o tornavi a vivere nell’astrazione, oppure sceglievi la realtà, che voleva dire: vita! Vivere senza più rimandare al domani; farla finita, cioè, coi sacrifici! (Eh… facile per un corno! Secoli e secoli di peccato originale e non era finita lì… c’eran quelli delle sezioni, che odiavano i lendènün, i cinès, quei che scrivèven i versi à la Kerouac, quei che… per farla breve, mi vien da chiosare (e chi capisce, bene!, chi non capisce, fa niènt): NUDI SI’ MA CONTRO IL PCI!
Ti tiravan fuori quella terra, i compagni, dalla sacoccia e tu rimanevi lì, come se vedessi la Diana nuda, tanto per restare nel mito. Adesso veniamo al punto, veniamo al nome del protagonista, dell’Odisseo del mito Calusca. Tutti abbiamo davanti l’immagine del Polifemo e del povero Ulisse. Bene! Come ti chiami?, domanda Polifemo, e Ulisse risponde: me ciàmi Primo Moroni!
È il Primo Moroni che portava tutti, uno per uno, v’ün per volta, i compagni cioè, verso quella terra di cui tutti tenevano un pezzettino in tasca, stretto in sacòcia o serà strèt strèt nel pugno. E quanti ne abbiamo visti, tutti, noi, i compagni, di quei pezzettini, porca-la-miseria! Ne ho visti così tanti io che mi brillano ancora gli occhi! E l’Umberto, l’Omero in questione, il cuntastorie cioè, il mitografo (…chiamatelo come volete!), va in giro ancora con quella terra lì. El gà piantà sü un alber. L’à ciamà Vicolo Calusca. L’è el sò lìber.
E un tempo, l’Umberto, l’han persino menà in galera, come se fosse una colpa andarci in giro con la terra. Ed è in galera che è finito il viaggio. Quel viaggio. L’han menà, il Lucarelli Umberto – gli increduli, i teologi, la sbirraglia, quei che credèven nei sacrifici, quei che giràven con l’Unità in tasca (bèla in vista!), e la tessera del partito nel portamonete, in galera! Vigliacca d’un mondo dismèntegà’! E il Primo? s’è fermato lì. In Calusca. E parlava, parlava, el sütava parlà… el se scaldàva, el sè rabìva , el ragiunava come un màt’, e intanto i compagni disparèven…: mort, o in galèra o in esìli! Ecco, la fin della fiaba!
E tu, più giovane, andavi in cerca d’un colloquio, coi compagni naturalmente, e speravi, te speràvet: sù, dài, tira fuori la terra, come una volta, tirala fuori! Urlavi , ti incazzavi… macché! Pareva una scena del Dostoeveskij, boia d’un mund làder! Nessuno più che tirava fuori la terra! Fam’ vedè la sacòcia, tè urlavet, boia can! …Niènt! Nisba! VERBOTEN! Pàssen i ann… E il Primo? El disparès anca lü, boia d’un mund sgrasiàt! Giüvin, sesàntaquatr’ann! Ma al funerale, tutti i compagni èren lì, piangèven, cantàven, saltàven föra dai tumbìn, e gridàven per l’ultima volta: BANDIERA ROSSA. El mito, à mì, el sè rintanà nel cör!
Nota sull’autore: Umberto Lucarelli appartiene alla genìa dei Martin Eden. Uno di quelli che la vita la conosce presto. La povertà è talvolta un lusso, lo è almeno per certuni. Sono i Martin Eden. Da quella vita si può imparare, presto, molto presto, quasi tutto. Quasi tutto sulla letteratura, ben inteso, cioè sulla vita. La strada. Il tribulare. Poi, il mestiere. Infine, i libri. E’ chiaro che da un tipo simile, non può che farsi avanti il genere dell’epica: saper raccontare, cioè, il Fuori. L’anima collettiva, si usava dire. Il Fuori, diceva invece Blanchot, stanco delle beghe cattocumuniste. Questo Fuori, è, nel caso di Vicolo Calusca, il laboratorio dei giovani compagni che ne avevan le palle piene del lavoro in fabbrica. Ne avevan le palle piene, in verità, di tutto: sindacati, famiglia, università, PCI e quel cazzo di denaro senza il quale, ti inculcavano, non potevi far nulla. E come potevano dopo aver ascoltato, da infanti (quasi!), Hendrix, Coltrane, Kerouac, ecc. ecc. ecc.!
Christian Pugliese
Recensione a Vicolo Calusca di Umberto Lucarelli, Edizioni Bietti, pagg. 106, euro 12.