Il nuovo libro di Gabriella Musetti edito da Samuele editore nella collana Scilla, raccoglie in due sezioni testi poetici brevi quanto intensi e folgoranti. La prima sezione, che si apre con una citazione da Emily Dickinson, raccoglie delle vere e proprie storie in versi, quasi un’antologia dei modi di morire diversi e dei versi che resuscitano dall’anonimato: si ripete, a inizio verso, quel ‘lei era morta’ con alcune variazioni in certi testi. Ripetere è accomunare, ridire, più che ironico, iconico, e lei, loro, le donne, o gli uomini, la loro parte femminile: l’anafora potenzia e rende l’indeciso passo ultimo una soglia. Difatti, nei brani poetici, manca la punteggiatura e queste vite-morti paiono viste dall’alto, dall’altro, come fiori e buchi neri in un campo simbolico e reale allo stesso tempo. La vita e la scrittura che ne è in qualche modo la morte.
La seconda sezione si apre con un esergo di Maria Zambrano ed è dedicata ad alcune donne poete – Plath, Woolf, Cvetaeva, Rosselli, Bachmann, Stampa, Saffo, Storni, Pozzi – che hanno scelto non solo di vivere e scrivere in un certo modo, ma soprattutto di scegliere loro quando e dove collocare il punto finale al testo della loro vita. La brevitas compositiva regala visioni oltre le quali le poete sono dei veri e propri eventi e quindi, oltre genere, nel desiderio finale che accomuna gli esseri umani: lei è anche la parte femminile dei maschi. Pure in questi testi dedicati notiamo l’apertura che si ripete: ‘le donne che non’ quasi a segnalare la comunanza dell’origine, e la diversità dei destini in una prospettiva rovesciata: si racconta, in fondo, delle altre donne che, a differenza di quelle poete, non hanno posto fine alla loro vita. La scrittura di Musetti è sempre del margine, dell’osservazione della vita altrui con discrezione e tatto. La mancanza di rime e ritmi non va a scapito di una certa musicalità dello sguardo, una galleria di immagini che rendono paradossalmente armonica e familiare l’immagine della morte anche quando è autoimposta. C’è poi da dire che le prime tre composizioni e le ultime cinque paiono collocarsi a preambolo e a epilogo, un venire uguale da un ventre e un altrettanto uguale eclissarsi nel niente: nel mezzo c’è la vita autobiografica, l’esistenza propria, unica e desiderante, non addomesticabile. A tratti sconosciuta.
Gianluca Garrapa
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«un buon uso della vita
e la nostra autobiografia / di tutti
– dice Maria Pia –
diventi un viaggio
meno accidentale
non raro non avaro
e strisci dentro
luoghi contenenti sale»
Il libro si apre così, quasi un prologo insieme ai versi delle due poesie successive. I componimenti paiono visioni e squarci che illuminano quella parte oscura della vita che è la morte e, di più, la morte volontaria, cui dedichi la seconda sezione della silloge. Si parte da un’origine comune e poi il viaggio di ognuno torna a una sorta di nuova comune fine. Il titolo, “un buon uso della vita” è ambiguo: può esistere anche un buon uso della morte oltre che della vita?
Ho tentato di sondare il ‘non detto’, la morte. Morte volontaria solo di coloro che chiamerei ‘le disobbedienti’, quelle che hanno scelto la morte come atto di ribellione o di rinuncia, ma hanno fatto una scelta. Nella prima parte del libro, invece, la morte capita improvvisa, coglie una vita incompiuta, fragile, anonima. Un buon uso della morte, chiedi, non so, nella nostra società occidentale contemporanea la morte è del tutto bandita nel senso che non c’è una preparazione, non c’è una cultura che accompagni. È un imperativo sociale ed economico quello di mantenere i corpi giovani e prestanti a qualunque età e a qualunque prezzo. La nostra società è fondata indiscriminatamente sui beni di consumo, con tutto ciò che comporta in termini di frustrazioni, sfruttamenti e violenze individuali e sociali. La morte viene rimossa come l’innominabile, viene nascosta. Intendo dire l’atto finale del morire. Spesso si muore da soli, in ospedale, lontano dagli affetti. Poi le esequie tornano a essere un evento pubblico. Eppure proprio la pandemia, ad esempio, ci ha messo in un contatto stretto e ineludibile con la morte, con immagini che non dimenticheremo presto.
«anche lei è morta di mattina
facendosi il caffè
presso l’acquaio di cucina
l’hanno trovata
riversa a terra – sola
e sola è rimasta
se n’è andata
senza una parola»
Il componimento fa parte della prima sezione, che si apre con una citazione dalle lettere di Emily Dickinson. Nel corso di questo viaggio incontreremo, più che donne, proprio il ‘femminile’, forse perché il femminile che ci racconti è pure quel lato presente nei maschi. Dunque, credo, è l’idea stessa di essere-donna, come concetto, come evento creatore a scontrarsi con l’evento della morte: è proprio così?
Sì, ho voluto indagare una sensazione profonda che le donne avvertono bene: quel sentimento di insufficienza, di debolezza, di perdita, come se continuamente mancasse qualcosa, quel sentirsi sempre fuori centratura, fuori posto. Come se fossero dati connaturati al genere femminile, così si pensa nel senso comune, e spesso le donne hanno introiettato talmente bene questo pensiero che ne sono loro stesse portatrici: un simbolico storico dominante nei comportamenti imposti come naturali. La società è stata costruita su questi parametri patriarcali: la forza maschile e la debolezza femminile. È vero che qui osservo il concetto di essere donna come una forma di costruzione culturale e sociale, perché il senso di incompiutezza e vulnerabilità lo abbiamo tutti, in gradi diversi certamente, ma accomuna noi esseri umani senzienti. Ma per le donne c’è stato dell’altro: nel tempo passato questo senso di insufficienza si è trasformato in uno stato di minorità o in una colpa, per cui spesso la donna è stata demonizzata o idealizzata, letta comunque al di fuori da una sua concretezza e autonomia.
«era morta mentre saliva le scale
gioiosa – della sua casa
trascinandosi le borse della spesa
aveva comperato un dolce
una sorpresa per la festa
ma nessuno mangiò
ancora resta»
In questi componimenti la morte è presente come evento improvviso, che non avvisa. Un accadere quasi poetico, come un lampo che coglie occhio e sentire in un particolare della vita e ce lo fa vedere diverso, nuovo. Secondo te la poesia è più ispirazione o solo tecnica da abbinare a ricercate parole?
Potrei dire che la poesia è entrambe le cose, ma sarebbe una risposta inadeguata. Credo che dire che cosa sia la poesia in generale sarebbe un atto arbitrario, poco convincente, con una qualche validità, forse, solo per me. La poesia, quando capita, accade, nel senso che è un evento che lascia sorpreso proprio chi scrive. Non penso a un evento mistico, ma certamente fuori del comune sì, l’accadere di un accordo di elementi verbali che prima non esistevano nella forma in cui vengono posti dal poeta. E in cui si mescolano e fondono insieme il sentire profondo e la conoscenza poetica.
«le donne che non vanno al fiume
con le pietre in tasca
aspettano silenziose alla finestra
uno sguardo al tempo
uno al paesaggio
che passi questo maggio e la stagione
fiorita torni l’autunno con le sue
brume
confonde e assopisce ogni lume»
La seconda sezione del libro si apre con una citazione di Maria Zambrano che in un suo saggio scrisse che bisogna stare sulla soglia dell’altro per accoglierlo davvero. In questo componimento, dedicato a Virginia Woolf, come negli altri dedicati a altre poete, intravediamo una vita, un evento poetico, standone però al margine, con discrezione, sulla soglia, appunto. E, con una prospettiva rovesciata, leggiamo la vita di chi non ha scelto di morire per propria mano. Come nasce questo secondo gruppo di poesie che iniziano tutte con “le donne che donne che non…”?
L’intento, in questa parte, era quello di onorare alcune importanti poetesse e scrittrici che sono state autrici fondamentali nel mio percorso di formazione e crescita, e in generale nel pensiero delle donne, in quanto hanno gettato i semi per una cultura allargata, collettiva, sulla scrittura femminile. Ammirate perché fuori regola, sono quelle che non si sono arrese, appunto le disobbedienti, le eccentriche, che hanno scelto i parametri della propria vita, ma a un prezzo altissimo, il suicidio, che non è certamente una vittoria. Qui ho rovesciato la prospettiva parlando di quelle “che non…”, ovvero le donne che non hanno fatto le loro scelte così determinate e definitive, in una sorta di antifrasi e paradossi, perché la lode si mostra attraverso figure che hanno agito in modo differente.
«le donne che non inghiottono pastiglie
stese sull’erba vicino all’Abbazia
ragione ultima di caparbia scelta
e amore
alzano lo sguardo alle montagne
con desiderio d’inerpicarsi ancora
in libertà e disciplina»
La poesia è dedicata a Antonia Pozzi, o meglio alle donne che non hanno scelto di morire come la poeta. Nel gesto violento di togliersi la vita, sembra un paradosso, spesso v’è lo smisurato desiderio di vita. Che rapporto c’è, secondo te, tra il corpo e la poesia, tra il desiderio e il respiro di un verso?
Hai inteso bene, tutto questo lavoro che parla continuamente della morte è al suo fondo un libro sulla vita, sul desiderio di cambiamento. È una domanda difficile, non a caso questo libro è stato lungamente pensato e riscritto, modificato, nel corso del tempo. Il corpo è dentro la poesia, ne fa parte integrante. I sentimenti, i desideri sono del corpo, non contrapposto all’anima, non c’è un dualismo, a mio parere, esiste invece un insieme complesso, magmatico. Le parole si intrecciano con il respiro e con il desiderio (a tutti i livelli). Il desiderio è ciò che fa muovere gli esseri umani, che forse è stato il motore primo della evoluzione umana. La poesia non nasce, secondo me, in un mondo astratto ma nel concreto della vita, che si dispiega in modalità proprie e complesse, difficili da comprendere con la sola ragione. Questo libro osserva la vita, anche se essa è colta nell’ultimo istante. Ogni vita vissuta ha avuto nella sua singolarità qualche scintilla di grandezza, anche nella marginalità e nella apparente insignificanza. Il titolo Un buon uso della vita è un ossimoro, e il sottotitolo Immagini fuori sesto lo spiega.
«Nel corpo si apre una metamorfosi radicale»
Si apre così, la sezione finale, in prosa, note e aggiunte ai testi. Quasi non si possa mai smettere di parlare di poesia, come se la scrittura si insinuasse anche e soprattutto dopo la sua fine. Che rapporto vedi tra prosa e poesia e cosa è per te una ‘fine’?
La parte finale in prosa è nata per la necessità che ho sentito di spiegare quanto avevo cercato di dire in poesia. Non note esplicative dei testi, ma ragionamenti e indicazioni bibliografiche. Ho voluto riconoscere il debito che tutte noi abbiamo nei confronti delle pensatrici e delle autrici che hanno aperto la strada all’indagine su questi temi. Cercare una verità dentro l’oscuro della nostra lontana origine animale e umana mette in gioco moltissimi e complessi aspetti antropologici e archetipici. Quello che noi, nella nostra visuale quotidiana, possiamo cogliere è l’incrinatura di un sistema che sembrava compatto e definito, solido. Sono i tagli o le fessure che via via si ramificano a offrire minimi luoghi che aprono nuove domande, sguardi obliqui da tentare. Che la realtà sia altra da come l’abbiamo sempre pensata ce lo sta raccontando la fisica contemporanea, e siamo sbalorditi da quanto apprendiamo. La poesia mette a fuoco i temi con il suo linguaggio, apre alla irregolarità che non trova composizioni, fa del morire un atto imponderabile nella sua unicità, attraversare le perdite può divenire un gesto trasformativo, scavare dentro l’opacità che ci include può dare voce leggera a quanto rimane di inespresso, sul fondo.
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Gabriella Musetti, Un buon uso della vita, Samuele ed. 2021, collana Scilla