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Un cuore così bianco: Javier Marías incontra Macbeth

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Non è una riscrittura shakespeariana, quella che compie Marías in Un cuore così bianco, ma una assimilazione, se è vero- come è vero- che molti dei suoi romanzi recano nel titolo un verso del Bardo: Un cuore così bianco riprende la battuta di lady Macbeth; Domani nella battaglia pensa a me, un verso del sogno di Riccardo III; Nera schiena del tempo è ispirato alla Tempesta; e Così ha inizio il male cita le parole di Amleto.

Pessoa, in una delle sue Pagine esoteriche, ipotizza l’esistenza di un traduttore invisibile che gli impedisce di stupirsi o di sorridere di chi dice di conoscere un’opera pur non avendola letta in lingua originale presupponendo “una comunicazione occulta da anima ad anima” attraverso cui comprendere “il simbolo, non per esperienza diretta, ma perché conosciamo ciò di cui è simbolo”. Pessoa prosegue citando Shakespeare: “Chissà se, in qualche incarnazione precedente, chi mi parla non abbia conosciuto Shakespeare come fu in questo mondo, non abbia parlato con lui nei modi che usava, e non sia, senza che lui o io lo sappiamo, il traduttore invisibile di un grande amico ignorato”. D’altronde è ciò che, in qualche modo, afferma Marías in un brano tratto dal discorso pronunciato a Dortmund, alla consegna del premio Nelly Sachs: “La partitura non cambia, ma suona in modo differente ogni volta che la si interpreta, e in realtà si può dubitare della sua esistenza solo se non viene interpretata, se non ha luogo, se non succede. I testi originali sono un po’ come le partiture musicali; le traduzioni sono un po’ come le esecuzioni o gli adattamenti di ciò che senza di essa tace, e con il tempo impallidisce, o si trasforma in geroglifico per i discendenti di chi scrisse l’irripetibile e intoccabile e inalterabile testo”.

Non a caso Juan, il protagonista del romanzo, è un traduttore che, una notte, durante il viaggio di nozze all’Avana, non può fare a meno di origliare la storia di Guillermo e Miriam, una storia che custodisce un segreto che si dipana nel corso della narrazione, una storia che parla di morte e assassinio, di istigazione al delitto- ma incoraggiato per amore, per desiderio di prendere il posto di un altro e di insediarvisi stabilmente. Non è questa la trama di Macbeth?

Il tema è quello della parola, la sua traduzione e la ripetizione nel ritmo incantatorio che libera; il tema è quello dell’ascolto di ciò che viene detto e di ciò che viene passato sotto silenzio, il segreto da cui non si può prescindere; il tema è il segreto nel matrimonio, le parole che non si possono tacere, e il matrimonio sia come “istituzione narrativa” (dice Marías) che come “condivisione delle parole” (dice Stanley Cavell nel capitolo dedicato a Macbeth in Il ripudio del sapere. Lo scetticismo nel teatro di Shakespeare); il tema è quello del sapere e della responsabilità che implica: “Ascoltare è davvero pericoloso, significa sapere, significa essere informato ed essere al corrente”. E il protagonista non vuole sapere troppo dell’altro, né della moglie né del padre che conserva, appunto, un segreto che circola sempre più insistente in accenni pronunciati mai a voce troppo bassa per non essere uditi, e che quindi condizionano. “Non ho voluto sapere ma ho saputo”, è così che si apre il romanzo, perché l’orecchio è simile a quello in cui lady Macbeth versa il suo coraggio per incitare il suo signore, il suo coscienzioso e tremante marito, ancora troppo pieno del latte dell’umana dolcezza per prendere la via più breve– che sarebbe poi quella di uccidere il re e prenderne il posto, il trono, disseccando la radice della sua progenie per far avanzare la propria, vale a dire la storia di Guillermo e Miriam, ascoltata all’Avana, la storia di una donna che chiede al suo amante di uccidere la moglie, sperando di diventare moglie a sua volta.

Che cos’è dunque il matrimonio? È quel cambiamento di stato (civile) in cui le cose succedono a entrambi e in cui si comincia a voler sapere o si è, in qualche modo, costretti a volerlo, a causa di quell’istigazione che, in Macbeth e in Un cuore così bianco, è propria del femminile (per Luisa, la moglie di Juan, “tutto si può raccontare. Basta mettere una parola dietro l’altra”; cosa per lui inaccettabile perché convinto che “la verità non riluce”, rimane torbida: “forse per questo si racconta tanto o si racconta tutto, perché niente sia mai accaduto, una volta raccontato”).

Il segreto connette i padri ai figli, li fa tempo; e nel tempo delle nozze i figli si trovano a calarsi nel ruolo che fu dei padri, nel continuum del racconto che collega le generazioni. Ma che cosa ha fatto Ranz, il padre; chi è? È un critico d’arte, consigliere del museo del Prado, un uomo che conosce a fondo l’illusivo mercato dell’arte in cui la differenza tra un capolavoro e una crosta sembra spesso troppo labile (come racconta Elio Chinol nel romanzo satirico La pantofola di Nerone o nel romanzo-inchiesta Falsi nell’arte, il caso Martini). È un professore, un padre, un uomo più volte sposato.

Il matrimonio, allora, è un cambiamento di stato in cui si è costretti a sapere: sapere cosa lo si scoprirà nel corso della lettura (“Tacere e parlare sono un modo di intervenire sul futuro”); e riguarda l’istigazione, come dimostra il colloquio tra due alti funzionari, uno spagnolo e l’altra inglese, che Juan e la futura moglie ascoltano, mentre lui traduce alterando alcune domande al fine di portarli a un confronto più serrato e stimolante: “In realtà mi domando se qualcuno mi abbia mai amato senza che io lo forzassi a farlo”, si chiede la funzionaria inglese; e continua: “Tutti obbligano tutti, non tanto a fare ciò che non vogliono, quanto piuttosto a fare ciò che non sono certi di volere”. E comincia una tirata sui capi di stato che hanno il compito di far progredire il mondo, “prendendo le decisioni che gli altri non prenderebbero mai, paralizzati dai dubbi e dalla mancanza di volontà”. Ecco la connessione tra vicenda privata ed esercizio del potere (potere che, come ricorda Magris in Segreti e no, “proprio per essere più forte non solo si riveste di segreto ma estende il segreto, l’arcano, alla realtà e alla vita intera”). La funzionaria cita poi le parole di lady Macbeth: “I dormienti, e i morti, non sono che figure dipinte”, intendendo che le persone non siano altro che questo e che i governanti debbano guidarle facendosi carico della loro volontà: “Ma è ovvio, dobbiamo farlo in modo che loro continuino a credere di scegliere, come le coppie che si uniscono credendo entrambi di aver scelto coscientemente”. E invece c’è sempre una presenza occulta che dirige i passi dell’uomo- non importa se siano streghe, politici o storie segrete che diventano l’ordito di un racconto ciclico che ricomincia; quel segreto che la psicologia transgenerazionale conosce bene; quel segreto che è materia del bel film di Immesi- Brazzale, Le guerre horrende, sceneggiato e poeticamente interpretato da Livio Pacella, in cui la storia riprende a ogni chiusura di cerchio, ogni nuovo mattino quando la maschera del conosciuto, di quel vestito ricordante, cede alla necessità del ritorno, di una storia che si fa daccapo. Perché alla fine rimane solo questo: il dire e il tacere, il loro ricombinarsi che dà vita a un canto che non si riesce a scordare ma che necessita di un’incessante traduzione che permetta di comprendere chi è l’uomo, in prospettiva storica, personale ed essenziale, perché, come afferma Cavell, quello di Macbeth è un dramma sulla responsività: nessuna opera shakespeariana, secondo il filosofo statunitense, ci mette maggiormente di fronte al dilemma, alla lotta tra l’accadere e la sua interpretazione (fare o non fare, e se fare, fare cosa?, o, come dice Macbeth: Se tutto finisse una volta fatto, allora sarebbe bene/ che fosse fatto subito): che è il problema “dell’intelligibilità dell’umano a se stesso”.

(Javier Marías, Un cuore così bianco, Einaudi, 2014 , 326 pp., traduzione e cura di Paola Tomasinelli)

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