In trentadue anni aveva imparato poche cose della vita, ma tutte essenziali: la cosa più importante è non mostrarsi spaventati; il mondo resta fuori dove deve stare; mai parlare del pannolone per la pipì.
Nicolino Forgiapane era stato registrato all’anagrafe con un diminutivo da un padre amorevole che lo destinò a un’infanzia perenne.
Quella sera indossava un abito spezzato, con la giacca delle occasioni in cashmere blu e il pantalone grigio in vigogna di due taglie più grande, per contenere la mutanda assorbente.
Nessuno, tranne gli anziani genitori, era a conoscenza del suo problema di incontinenza. Forse la vicina di casa sospettava qualcosa, a causa di una corda per il bucato incautamente condivisa, ma l’autorevolezza del suo ruolo sociale – avvocato – non permetteva allusioni, solo fantasticherie non condivisibili con altri.
Sin da bimbo Nicolino si era dimostrato inadeguato a tutto: stava sempre sotto a nascondino; arrivava ultimo alle corse in piazzetta; non venne mai indicato dal collo della bottiglia per palpeggiare o limonare, anche se collezionò cinquantasei strette di mano.
Fu grandemente stupito quando il suo capo, l’Avvocatissimo Dottor Nunzio Locetera, lo invitò ai festeggiamenti di fine anno: quella mitica celebrazione leggendaria riecheggiante sulle bocche di tutti come “La festa delle feste”.
Quando si aprirono le porte della rinomata taverna al piano interrato dell’abitazione Locetera, i commensali furono invitati a togliersi le scarpe per non rovinare il pavimento in “cotto fatto a mano”. Fu in quel momento che Nicolino notò una Signora misto volpe con i tacchi da dieci centimetri. Lei gli chiese di potersi appoggiare a lui per sfilarsi le décolleté in vernice rossa e Nicolino la aiutò sospirando e balbettando, porgendole il braccio come un consumato Rhett Butler.
Non fu il vento a portarlo via, ma quell’ebbrezza floreale di un prezioso profumo – Eau de Cologne Exploit Atkinsons – che fuoriusciva dal pelo della bestia morta sulle spalle della folgorante Signora. I suoi pensieri calarono veloci e pulsanti lungo ogni vena, come un brivido di sudore inatteso, sin dentro il pannolone: un palpito che gli appesantì le ascelle e asciugò la lingua.
Durante la cena, comodamente consumata sulle sedute in stile coloniale avvolte ancora dal cellophane, gli occhi di Nicolino Forgiapane non si alzarono mai dalle renne stampate sulla tovaglia, neanche al tempo dei numerosi brindisi a base di un potenziale vino rosso autoctono, neppure nel coinvolgimento delle varie conversazioni. Lei e la sua volpe argentata gli erano davanti dall’altro capo del tavolo, e lo stavano fissando, ne era certo.
Terminati i trenini, le esplosioni di bianco frizzante e ogni tipico rituale scaramantico della bergamasca, il 1965 era finalmente giunto, con tutta la sua stanchezza e un retrogusto allappante di bagnacauda.
In molti andarono via recuperando scarpe e dignità, ma Nicolino Forgiapane fu invitato a rimanere insieme a un manipolo di strettissimi collaboratori che la mattina avrebbero discusso del nuovo anno lavorativo e del “Caso Bobaway”: un complicato processo, tra dolce vita e delitto, che avrebbe coinvolto lo Studio Locetera.
Chi era la Signora?
La mattina del diciotto gennaio del 1964, presso i laboratori dell’industria tessile Soffiltex, in una palazzina sita in un vicolo cieco perpendicolare a Via del Cemento, una segretaria, giungendo sul posto di lavoro, scoprì il cadavere del proprietario dell’azienda. Il Commendatore Roberto Assente (conosciuto con il soprannome di Bobaway), era stato ucciso con quattro pugnalate al petto e sfigurato con acido solforico.
Lei, la Signora bionda con la pelliccia fulva e le labbra in tinta con i tacchi, era quella segretaria: Claretta Chiavarese.
Sospettata, come da procedura, si era rivolta allo Studio Locetera per accelerare i tempi della giustizia, per riscuotere l’eredità intestatagli dal Commendatore e per salvaguardare la sua reputazione, di sicuro contro i media che la definivano “L’amante ammaliante del Bob…”.
La stanza dove Nicolino fu accomodato era al secondo piano.
La stanza dove Claretta fu accompagnata era al secondo piano.
Alle tre e quattordici minuti, in piena notte, lei bussò alla porta di Nicolino.
“Chi è?” chiese lui tirandosi le coperte sotto il mento…
“La buona sorte!” sussurrò lei.
Nella testa di Nicolino vibravano ancora le note di Peppino di Capri e i suoi Rockers, ma “Non mostrarti spaventato, il mondo resta fuori dove deve stare” si ripeteva, e il pannolone… Presto, strappa, sfila, togli, nascondi.
“Io Claretta… etta! Tu Nicolino… ino”. Entrando, si sfilò la vestaglia in organza.
I suoi peli, sull’inguine segreto, confondevano i ricami dell’intimo in pizzo.
Sul suo pube, tra le foglie dell’acanto setoso, muoveva un alito caldo, un soffio boschivo che toglieva il respiro… E l’incanto era dentro, era attorno ed era accanto: era lei.
Nicolino si tolse il pigiama a righe verticali, non senza aver provato una minima resistenza professionale e per la prima volta provò le labbra di una donna non sulla fronte, non sulle guance, non sulla bocca…
Fu un duro lavoro salvare l’eredità della Signora Claretta Chiavarese.
Ma come si potrebbe mai mischiare il sacro con il profano?
Come avrebbe mai potuto circuire il Commendatore una donna così miracolosa da far sembrare una peccatrice persino una suora?
E quando, fissando la Corte, Claretta si proclamò innocente di tutto, Nicolino si mise una mano in tasca e fingendo di prendere il fazzoletto in cotone si spostò invece i testicoli impigliati nello slip Cagi in filo di Scozia.
L’amore è una tentazione che toglie i dubbi, e rende piacevole sentirsi asciutti da qualsiasi umida vergogna.
E il mondo resta fuori e poi dentro e fuori e poi dentro ancora, sino al piacere, all’essenza, sino alla vita, anzi un po’ più in basso della vita.
Angelo Orazio Pregoni