Ben Lerner, The Topeka School (Farrar Straus and Giroux, 2019)
È tornato Ben Lerner e è tornato sotto l’alter ego, neanche poi tanto alter, di Adam Gordon. The Topeka School forma una curiosa trilogia insieme ai suoi due predecessori, Leaving the Atocha Station (Coffee House, 2011; Un uomo di passaggio, trad. it. Laura Prandino, Neri Pozza, 2012) e 10:04 (Faber & Faber, 2014; Nel mondo a venire, trad. it. Martina Testa, Sellerio, 2015). Come i suoi due predecessori dividerà la sua platea di lettori tra entusiasti e detrattori, tra chi odierà la solita cosa alla Lerner, astratta, cerebrale, priva di una vera e propria trama, e chi invece saprà apprezzarne la densità di una scrittura che impreziosisce una storia che per quanto esile ha comunque una sua eleganza e profondità. Dico subito che io sono tra gli estimatori, nonostante non possa fare a meno di riconoscere i limiti di un genere che rischia di collassare ai confini tra l’esercizio mentale e vaghe prove tecniche di destrutturazione.
Come sui due predecessori, anche su The Topeka School ci sono elementi narrativi mescolati a elementi auto-biografici che entrano in collisione in un ibrido tra faction e fiction. Su Leaving the Atocha Station Ben Lerner aveva introdotto per la prima volta il suo dopplegänger Adam Gordon, o “una versione nevrotica del mio io già abbastanza nevrotico” come l’ha definito lo stesso Lerner. E già lì tradiva molti elementi autobiografici: Lerner spedisce Adam Gordon a Madrid, in Spagna, per una borsa di studio durante il 2004 (come Ben Lerner, che era stato in Spagna per una borsa Fulbright per la poesia), per lavorare su un suo lungo poema sulla guerra civile americana, mentre segue la resa mediatica dell’occupazione statunitense dell’Iraq e cerca di eludere la “Fondazione” (curiosamente troviamo anche su The Topeka School una “Fondazione”). Il libro è una satira del mondo accademico della poesia e dell’arte e per tutto il libro c’è una continua tensione tra la realtà dei fatti e la dissimulazione dell’arte, non solo nella poesia (Gordon si sente una frode), ma anche delle arti visive: il romanzo inizia al Prado davanti alla Discesa di Cristo dalla Croce di Rogier Van Der Weyden, dove Adam Gordon vede un uomo commuoversi e si chiede se stia male o se sia il presunto potere dell’arte, e finisce alla stazione Atocha il giorno dell’attentato di Madrid dell’11 marzo, rivendicato da Al-Qaeda, evento reale e cruento che Adam non riesce a empatizzare. Curioso che ci sia anche una poesia di Ashbery con lo stesso titolo.
Alla fine di Leaving the Atocha Station Adam Gordon torna a New York per “riprendere contatto con la realtà della vita,” convinto che sia la cosa migliore per se stesso e per la sua poesia. Quel ritorno a New York si è materializzato su 10:04, dove un narratore di nome Ben (come Lerner), trapiantato nella Grande Mela da Topeka (come Lerner), sta cercando di superare un blocco dello scrittore dopo l’inatteso successo di un suo primo romanzo (come Lerner, e quel primo romanzo di cui si parla nel libro assomiglia molto a Leaving the Atocha Station). Qui Ben vuole uscire da quel senso di inadeguatezza e di impostura che gli aveva lasciato il primo libro, e dimostrare che “l’arte deve offrire qualcosa che vada oltre la disperazione stilizzata,” e non vorrebbe finire per scrivere un altro “ennesimo romanzo sulla fraudolenza.” Vive il periodo a cavallo tra l’uragano Irene del 2011 e l’uragano Sandy del 2013, a New York, e in effetti entra in contatto con la realtà più pura: blackout, un’economia in collasso, Occupy Wall Street, uragani. Nonostante tutto però 10:04 finisce per essere perversamente proprio quella meditazione solipsistica e distaccata che prometteva di non voler essere.
Su The Topeka School facciamo un passo indietro. Il Ben di 10:04 torna a essere Adam Gordon, e torna adolescente a Topeka, Kansas, dove frequenta il liceo locala nella seconda metà degli anni ’90 (come Ben Lerner), fa parte della squadra di dibattiti (come Ben Lerner) e è aspirante poeta e materiale da Ivy League (Columbia, come Ben Lerner), sua madre Jane è una psicologa il cui lavoro verte sulla ridefinizione dei concetti della psicoanalisi tradizionali in chiave femminista (esattamente come Harriet Lerner, la madre di Ben Lerner). I due precedenti romanzi erano costruiti sulla coscienza di un narratore, e tutti i personaggi secondari erano solo degli strumenti che quel narratore usava per mostrare lo stato di necessaria e pervasiva alienazione nei confronti della realtà, uno stato comune a altri anti-eroi di altri romanzi più o meno contemporanei a quelli di Lerner, tipo To Rise Again at a Decent Hour di Joshua Ferris, Open City di Teju Cole o You Too Can Have a Body Like Mine di Alexandra Kleeman. The Topeka School abbandona la prima persona come unico referente della storia. I vari capitoli sono raccontati oltre che da Adam, anche dai suoi genitori: il padre Jonathan, psicoterapeuta che lavora in una fantomatica Fondazione, e la madre Jane, psicologa attiva nel femminismo che anni prima aveva anche dovuto affrontare le violente reazioni maschili a sue teorie femministe divulgate in un libro. Il risultato è simile a un libro di interviste, o a un puzzle di ricordi in cui ognuno aggiunge un tassello a una storia che prende forma e consistenza solo se quelle parti vengono sincronizzate in un tutto organico fatto di incastri precisi al millimetro.
Leaving the Atocha Station e 10:04 mostravano una realtà aliena, al di fuori della portata dell’azione individuale, e in un certo modo inquadravano la situazione di un’intera generazione, la Generazione X, pessimista, arrendevole, rassegnata, rappresentata dall’incapacità di Adam Gordon di compartecipare almeno emotivamente all’attentato dell’11 marzo in Spagna, o dal distaccato cinismo con cui il Ben di 10:04 assisteva inerte al movimento Occupy Wall Street. The Topeka School in un certo senso rovescia il modello, e l’Adam Gordon adolescente si scontra con i meccanismi che creano quella stessa realtà per la quale da adulto avrà un distacco apatico e cinico, e lo fa mediante il mondo delle gare di oratoria e di dibattiti. Si accorge presto che il linguaggio e la velocità supersonica, ottundente degli spread nelle gare di dibattiti erano presenti da sempre nelle tecniche di persuasione di società corporative a vari livelli, e che « anche prima delle notizie in presa diretta, del flusso di Twitter (che ti permette di parlare veloce e a scatti al tempo stesso), il trading algoritmo, attacchi DDoS, gli americani erano già invasi dagli “spread” linguistici stile dibattiti nelle loro vite quotidiane; e intanto i loro politici continuavano a parlare lentamente, lentamente di cose totalmente sconnesse dalla loro agenda politica.»
I dibattiti a livello agonistico servono a Lerner anche come collante per tenere insieme tutti gli elementi che compongono il mosaico: il machismo, o la Mascolinità Tossica (che è poi la base per la cultura del risentimento su cui in parte fa leva il Trumpismo, vero soggetto neanche tanto occulto del romanzo), le tecnologie di comunicazione e informazione, che sfruttano elementi già presenti nell’oratoria per dissimulare e mistificare la realtà, il modo in cui l’America viene vista come il maschio alpha d’Occidente (“L’America è adolescenza senza fine” dirà a un certo punto uno dei personaggi secondari, cogliendo in pieno la contraddizione di cui vive la generazione a cavallo tra vecchio e nuovo millennio, schiacciata tra l’eccessiva facilità di avere tutto e il problema di non doversi guadagnare quasi nulla).
Con i dibattiti viene messa allo scoperto anche la pericolosa spersonalizzazione etica di cui soffre l’uomo contemporaneo della fine del mondo (con l’eccezione dei dibattiti Lincoln-Douglas, nei quali si enfatizzano i valori morali): si tratta di difendere la posizione assegnata, con sprezzante cinismo, competizione, aggressività, senza dare alcun peso alla posizione che si difende. Da una parte rappresentano l’agorà di internet in anticipo sui tempi, dove tutti parlano di tutto senza la benché minima nozione di niente. L’importante è convincere, confutare: «impari presto a puntellare un discorso con fonti come fa un politico con le statistiche—per procurare una sensazione di autorità più che illuminare su un argomento o accordarsi su un dato di fatto.» D’altra parte rappresentano uno spaccato di una società spaventosamente simile al mondo visto da Ziegler nella novella di Hermann Hesse, Un uomo di nome Ziegler, citata nel libro di Lerner e che è una «società degenerata, fasulla, bugiarda, brutta, composta da esseri bestiali che sembravano un risibile miscuglio di tutte le specie animali.»
Tutto ruota attorno al tema della Mascolinità Tossica che Ben Lerner fa diventare una funzione che genera i meccanismi di interazione sociali del mondo in cui stiamo vivendo: razzismo, machismo, discriminazioni su diverse scale, competizione aggressiva. La vicenda del libro, sempre che si possa parlare di una trama in un libro del genere, è innescata proprio dalla reazione di Darren, un adolescente, con probabili disturbi autistici, che reagisce alle ripetute provocazioni da parte di chi lo percepisce come debole e diverso. Un contrappunto che segna un po’ tutto il libro è dato dai Phelpes, gli accoliti di Fred Phelps e della sua Chiesa Battista di Westboro, anch’essa di Topeka, Kansas, che minacciano a più riprese la madre di Adam Gordon, Jane Gordon, considerata colpevole di contribuire alla demascolinizzazione dell’uomo bianco (tra l’altro uno dei capitoli del libro narrati da Jane Gordon fa largo uso di un articolo della madre di Lerner, “Hating Fred.”
Se i due romanzi precedenti di Lerner, insieme a alcuni altri di scrittori più o meno suoi coetanei, ma che comunque di Lerner condividono formazione culturale e ambiente, sfruttavano il contrasto tra fatti e finzioni, tra un’arte sempre più sterile, e quindi in certo senso fraudolenta, e una vita che era sempre perennemente altrove, e finivano per sancire l’impossibilità di avere un contatto consapevole con la realtà, The Topeka School pare ricucire quella frattura. In tutti e tre i libri i protagonisti si scontrano con l’irrealtà dell’arte: su Leaving the Atocha Station con Discesa di Cristo dalla Croce di Rogier Van Der Weyden, su 10:04 con Giovanna d’Arco di Jules Bastien-Lepage e con le scatole di Donald Judd nel deserto di Marfa, qui su The Topeka School con Maria Madonna con bambino di Duccio di Buoninsegna (peraltro inserito volutamente in un contesto fuori sincrono): in tutti i casi assistiamo a una diffrazione tra arte e realtà, asimmetria tra fatti e finzioni, che segnano un percorso di crescente alienazione cerebrale, un’impossibilità percepita di interagire con la realtà. Impossibilità che evapora nel finale di The Topeka School, dove un Adam Gordon maturo e quarantenne nell’arco di pochi giorni affronta un genitore aggressivo in un parco e assiste e partecipa a una delle proteste del movimenti anti-trumpista Occupy Ice. La reazione di Adam Gordon è l’unica che può avere: cresciuto in un mondo di cinismo, distacco, ironia, dubbio e iper-intellettualismo, se una reazione può esserci può avere solo la forma di una difesa passivo-aggressiva, ironica, sprezzante, che fa fatica a riconoscere la realtà della realtà che ha davanti.
The Topeka School non segna solo un’ideale conclusione a un’ipotetica trilogia di Ben Lerner, ma anche una possibile via di uscita da tutti gli altri romanzi dello scetticismo intellettualistico nei confronti della realtà: i già citati Open City, You Too Can Have a Body Like Mine e To Rise Again at a Decent Hour, ma possiamo aggiungere alcune cose di Tao Lin, Nobody Is Ever Missing di Catherine Lacey, My Year of Rest and Relaxation di Ottessa Moshfegh, Atmospheric Disturbances di Rivka Galchen, American Purgatorio di John Haskell. Romanzi di autori diversi in genere e etnia, non sono tutti bianchi, né maschi, né necessariamente anglosassoni, ma tutti in qualche modo privilegiati prodotti di una formazione universitaria intellettualistica e sostanzialmente astratta. Tutti hanno saputo dare una descrizione della loro generazione, compresa tra gli X gen più giovani e i primi millennials, già vecchia di quasi una generazione, ma forse solo Ben Lerner ha tentato di azzardare una via d’uscita dalla contraddizione nella quale quella generazione si è trovata a vivere.
Paolo Latini